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Profondo Rosso

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Giovanni Modica

Dario Argento e Profondo Rosso

Profondo Rosso – Pag. 384 – Euro 24,90


Profondo rosso(1975) è il film più importante di Dario Argento, il suo lavoro indimenticabile che ne decreta il successo imperituro. Non siamo ancora nell’horror puro, ma in una cornice gialla classica, contaminata da penetranti elementi macabri. La parte orrorifica prende il sopravvento sin dalle prime sequenze in un teatro, che vedono la sensitiva Helga Ullman (Macha Meril) avvertire la presenza in sala di un omicida e quindi finire massacrata nel camerino. Marcus Daly, un pianista inglese (David Hemmings) indaga insieme alla giornalista Gianna Brezzi (Daria Nicolodi) ed entrambi vengono coinvolti in una spirale interminabile di omicidi. Profondo rossoè un film talmente noto che pare inutile raccontare la trama, anche perché sono stati scritti saggi ponderosi e approfonditi sulla pellicola. Giovanni Modica, invece, con la collaborazione di Luigi Cozzi, non solo non lo reputa inutile, ma dedica al film ben 384 pagine, facendo scomparire il vostro modesto saggista che nella sua sintetica storia del cinema horror italiano ha scritto sul film in questione soltanto una pagina e mezza. In questo libro edito dal negozio di Dario Argento, diretto da Luigi Cozzi - una vita dedicata alla celebrazione di un Maestro che purtroppo non è più così grande - troverete pane per i vostri denti, appagherete ogni curiosità e sazierete la vostra fame di curiosità cinefile. Io posso solo dire che Profondo rosso fa da spartiacque tra il thriller puro e l’horror, segnando la nuova strada di Dario Argento, sempre più in preda a una fantasia macabra e visionaria. L’elemento paranormale è presente, così come incontriamo ambientazioni gotiche e momenti surreali scanditi da apparizioni di pupazzi meccanici. L’estetica dell’omicidio viene perfezionata secondo la lezione di Mario Bava, ma sarà presa a modello anche da autori statunitensi come John Carpenter e Rick Rosenthal nella saga Halloween (1978 - 81). Il merito della sceneggiatura ricca di suspense va diviso tra il regista e Bernardino Zapponi, che inseriscono in una storia gialla elementi macabri e momenti di puro terrore. Funziona tutto, persino la colonna sonora dei Goblin che ha fatto epoca, ma - se vogliamo trovare un difetto - non sono il massimo certi dialoghi impostati e alcuni personaggi monodimensionali. Ottimi i due protagonisti, bene Clara Calamai, Eros Pagni e Gabriele Lavia, che regalano caratterizzazioni memorabili. Un finale a sorpresa mostra il killer riflesso nello specchio del corridoio come se fosse un orribile dipinto, un grande colpo di genio, intriso di fantasia surrealista. Profondo rossoè stato uno dei film più amati degli anni Settanta e il suo successo è ancora ammantato da un alone di leggenda. Giovanni Modica si fa introdurre da Fabio Giovannini, un argentofilo della prima ora, mentre lascia la parola al Maestro in un capitolo finale, inserendo un’intervista datata 2002 che argento aveva concesso a Federico Patrizi. Capitolo dopo capitolo viviseziona il film, dalla scheda tecnica alla scenografia, passando per trama, genesi, soggetto, sceneggiatura, ispirazioni letterarie, attori, locationes, fotografia, montaggio, vecchie recensioni, considerazioni critiche, film e autori che si sono ispirati ad Argento. Invano il vostro povero recensore ha cercato il suo nome tra chi si è occupato di horror italiano e nella fattispecie di Dario Argento. Non l’ha trovato. Peccato di presunzione, certo, ma in fondo gli autori citati in bibliografia sono talmente grandi che il mio piccolo nome di provincia avrebbe stonato. Profondo rossoè un testo fondamentale per capire il cinema  del Maestro dell’horror italiano, un libro che un amante della sintesi e dello stile divulgativo come me non avrebbe neppure concepito di scrivere. Perfetto, invece, per chi non si accontenta. Una cosa da stigmatizzare - comune a tutti i libri della Profondo Rosso - è il prezzo civetta: 24,90. Mica poco in questi tempi di crisi…

Il mio cinema lo trovi su Futuro Europa

http://www.futuro-europa.it/dossier/cineteca

Pierino contro tutti!

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A breve in libreria il primo e unico saggio mai scritto in Italia sulle commedie cinematografiche di Pierino

Pierino è il bambino terribile delle nostre barzellette, noto anche in America Latina, dove viene chiamato Pepito, ma le caratteristiche non cambiano: irriverenza, volgarità, trasgressione, ilarità e sboccataggine. Noi vogliamo parlare solo del Pierino cinematografico, geniale intuizione di Marino Girolami, Gianfranco Clerici e Vincenzo Mannino che produsse sequel, apocrifi, film per la televisione, progetti mai realizzati, idee bruciate sul nascere e persino alcuni film invisibili, vero e proprio incubo dei fan. I film della serie regolare – interpretata da Alvaro Vitali – sono tre: Pierino contro tutti (1980) e Pierino colpisce ancora (1982), diretti da Marino Girolami, mentre il tardo sequel Pierino torna a scuola (1990) è firmato da Mariano Laurenti. Pierino contro tutti fa registrare tra gli otto e i nove miliardi d’incasso (al tempo il biglietto costava 4.000 lire), un successo clamoroso che produce una ridda di imitazioni prima che Girolami possa girare il sequel autorizzato. Chi ha inventato Vitali nei panni di Pierino? Pare che persino Federico Fellini (diresse Vitali sul set di Amarcord) vedesse bene il piccolo attore romano nei panni di Pierino, ma è logico affermare che l’idea fu di Clerici e Girolami, non è lecito sapere quanto sia da imputare al primo e quanto al secondo, ma una cosa è certa: Alvaro Vitali ha le phisique du rôle per interpretare il bambino pestifero delle barzellette. Una mise che non cambia mai: cappello azzurro, fiocco rosso, pantaloni corti, scarpe da tennis, maglioncino senza maniche… risata irriverente, battute salaci, ripetitività della mimica e un immancabile epiteto conclusivo: col fischio o senza?

L’AUTORE: Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Traduce ispanici, si occupa di cultura cubana e scrive di cinema italiano. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: una Storia del cinema horror italiano in cinque volumi. I suoi romanzi Calcio e acciaio – Dimenticare Piombino (Acar, 2014), e Miracolo a Piombino - Storia di Marco e di un gabbiano, sono stati presentati al Premio Strega. Per Sensoinverso è uscito il suo saggio Storia della commedia sexy all’italiana. Da Sergio Martino a Nello Rossati. Blog di cinema: La Cineteca di Caino (http://cinetecadicaino.blogspot.it/). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it

Autore: Gordiano Lupi
Titolo: PIERINO CONTRO TUTTI. L’eroe popolare delle barzellette: analisi di un fenomeno cinematografico e di costume.
ISBN: 9788867933433
Collana: ItaliaNascosta
Pag. 60
Prezzo: € 12,00
Link sito ufficiale:

Il Tirreno parla del mio Pierino

Riposa in pace, Maestro

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Muore all’età di 86 anni Umberto Lenzi (Massa Marittima, 6 agosto 1931 - Roma, 19 ottobre 2017) , un regista del quale non posso dire di essere stato amico, perché anni fa avevo deciso di scrivere un libro sul suo cinema e dopo alcuni approcci e dichiarazioni rilasciate in esclusiva, la cosa finì male, per alcune incomprensioni. Non ci siamo più parlati e - per mia ripicca - ogni volta che lui è venuto a Massa Marittima e a Piombino non sono mai andato a sentirlo. Forse ho sbagliato, perché - nonostante il caratteraccio, difetto che in fondo ci accomuna - era un grande regista, uno che sapeva fare il cinema di genere.  Lenzi si è avvicinato al cinema horror negli anni Ottanta, dopo aver sperimentato gli altri generi popolari come l’avventuroso, il peplum, lo storico, il thriller erotico, il poliziottesco, i Tomas Milian movie, un fumetto movie come Kriminal e persino il sottogenere cannibalico. Non possiamo dire che l’horror sia stato il genere preferito dal regista massetano, ma è anche vero che una volta cominciato a fare cinema de paura ha continuato per oltre un decennio con ottimi risultati.  Se confiniamo i cannibal movie nel sottogenere che contamina horror e avventuroso, dobbiamo dire che il primo horror puro di Lenzi è Incubo sulla città contaminata (1980). Il regista mi disse che questo film gli fu proposto come una classica pellicola di zombi, ma lui la trasformò in  un horror ecologico, imperniato su una contaminazione nucleare che trasforma le persone in creature mostruose bisognose di sangue per sopravvivere. “La sceneggiatura di Incubo era una vera schifezza e io la dovetti rielaborare per intero” mi disse Lenzi. 

Per leggere il resto del pezzo vi invito a collegarvi con Futuro Europa, dove tengo una rubrica di cinema italiano: http://www.futuro-europa.it/25173/cultura/scompare-umberto-lenzi-maestro-del-cinema-genere.html

Il mio cinema lo trovi su Futuro Europa

Venni, vidi e m'arrapaho (1984)

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di Vincenzo Salviani


Regia: Vincenzo Salviani. Soggetto: Vincenzo Salviani. Sceneggiatura. Mario Bianchi, Vincenzo Salviani. Fotografia: Franco Campanile. Aiuto Regia: Mario Bianchi. Ispettore di Produzione: Alessandra Spagnuolo. Musiche: Claudio Natili, Silvia Subelli. Edizioni Musicali: Golden Grape sas. Oganizzazione Generale: Gilberto Galimberti. Colore: Augustus Color. Fonico: Antonio Pantano. Trucco: Massimiliano Lucci. Canzoni: Come sarà, Monica, Domenica svortamo, Fever (cantano Gli Arrapathis), Papàuh! Mamma, Il cielo in una stanza (cantano I Milk and Coffe), Lunadonna luna (Roby Vandalo), Questo sentimento (Santarosa), La canzone del cacchio (Edoardo Terzo), I Belive(Gli Any Way), Chedomenica (I Pom), Ho bisogno di te (I Romans), And I Say (Betty Elso), Bamboline bamboline (Roby Vandalo). Produzione: Samacor Cinematografica srl, Mondial Baia Cinematografica srl. Interpreti: Giziana Spatrisano, Alessandro Cerquetti, Athena Minglis, Giancarlo Capo, Daniela Andriolo, Luciano Pinna. Cecilia Oliva, Maurizio Argentieri, Edoardo Terzo.


Vincenzo Salviani si occupa di cinema dalla fine degli anni Sessanta, rivestendo svariati ruoli legati alla produzione (ispettore, direttore), fino a diventare lui stesso produttore (1974). Non lascia capolavori, ma onesto artigianato, molti film girati da Fernando di Leo lo vedono segretario di produzione (Brucia ragazzo brucia, Amarsi male, I ragazzi del massacro, Il boss), ruolo che ricopre anche in Acquasanta Joe di Mario Gariazzo. Direttore di produzione per Sedicianni e Lo stallone, due erotico - campagnoli di Tiziano Longo. Ancora cinema di Fernando di Leo come ispettore di produzione: La bestia uccide a sangue freddo, Milano calibro 9, La mala ordina. Ma anche Ku fu? Dalla Sicilia con furore di Nando Cicero, L’ultima chance di Maurizio Lucidi, La governante di Gianni Grimaldi, Madeleine… anatomia di un incubo di Roberto Mauri, Il testimone deve tacere di Gianni Rosati, Il venditore di palloncini di Mario Gariazzo e Yuppi Du di Adriano Celentano. Produttore de La profanazione di Tiziano Longo, Ondata di piacere di Ruggero Deodato, L’avvocato della mala di Vincenzo Marras, Uomini si nasce poliziotti si muore di Ruggero Deodato (anche soggetto), Voglia di donna di Franco Bottari, Malizia erotica di Larraz, La moglie dell’amico è sempre più buonadi Bosch Palau (anche soggetto e sceneggiatura), Il carabiniere di Silvio Amadio, Il miele del diavolo di Lucio Fulci (anche soggetto e sceneggiatura).


Vincenzo Salviani firma tre titoli da regista, legati da un comune denominatore, sono tutti dimenticabili: la sceneggiata napoletana Pover’ammore (1981), interpretata da Rosa Fumetto e Carmelo Zappulla; Venni, vidi e m’arrapaho (1984), che abbiamo rivisto; l’erotico patinato Sogno proibito (1988), interpretato da Brett Halsey.



Venni, vidi e m’arrapaho resta il suo film di culto, se non altro per l’originalità, per il livello di trash inconsapevole di cui è pervaso, composto com’è da un mix informe di commedia sexy, musicarello, giovanilistico, disco - movie, scritto a pura imitazione di modelli d’oltreoceano come La febbre del sabato sera, Flashdance e Porkys. Salviani dirige (piuttosto male) un gruppo di attori scalcinati - quattro ragazzi e quattro ragazze - pedinandoli nel loro quotidiano (ma Zavattini non c’entra per niente!) fatto di gare di motocross, scherzi feroci, prove musicali, amoreggiamenti vari con fidanzate e con una prostituta amante del pesce, esibizioni in palestra, furtive occhiate a ragazzine che si spogliano e fanno la doccia in palestra. Il film è tutto qui, forse le parti più divertenti sono le canzoncine trash che vanno dalla ritmata Donna luna alla volgarissima Come sarà, che indaga il tormentato io giovanile degli anni ottanta, alla perenne ricerca di una donna, basta che respiri. Il soggetto è composto da una serie di gag stiracchiate che ricordano il barzelletta - movie, raramente strappano il sorriso, come nel caso della lite tra pescivendoli al mercato che serve ai ragazzi per rimediare il pesce con cui pagare la prostituta e il noleggio degli strumenti musicali. Mario Bianchi aiuta sia in fase di sceneggiatura e che di regia, la sua mano greve si nota in più di una situazione, soprattutto nelle numerose citazioni della commedia sexy, ormai scaduta a livelli infimi. Molta discoteca anni Ottanta, con i lenti quando si abbassano le luci, tanta musica stile Bee Gees, ma pure citazioni da Flashdancecon alcuni numeri di ballo in una scuola di danza diretta da un istruttore gay (che si chiama Proci). 


Il tempo delle mele non può mancare, a livello di citazione volgare, così come non si scordano citazioni di citazioni, opere - certo non fondamentali - come Brillantina Rock e John Travolto… da un insolito destino. Non dimentichiamo la citazione del titolo: Arrapaho, dei mitici Squallor, che pure non c'entra niente. Un film senza una vera e propria trama, che si segue solo per vedere dove il regista voglia andare a parare. Da nessuna parte, in fondo, ché tutto pare improvvisato, scritto sequenza dopo sequenza, fino alla gara canora durante la quale Edoardo Terzo ci serve come piatto forte il suo celebre samba del cazzo e i nostri Arrapathis ci regalano una spudorata imitazione di Reality. Ma il meglio da un punto di vista canoro è già passato, cose da musical triviale girato tra Villa Adriana e Villa d’Este, ma pure per le vie di Roma, tra i monumenti più famosi, cantando Domenica svortamo, perché lei me la darà, oppure Monicain napoletano, che termina con un vaffanculorivolto alla ragazza. Un film che sembra una raccolta di videoclip senza senso, sceneggiati usando un collante invisibile, che in fondo si rivede volentieri per rimpiangere un tempo in cui il vitale cinema italiano passava da un capolavoro diretto da Mario Monicelli a una stronzata galattica di Vincenzo Salviani, senza soluzione di continuità. Non ci crederete, ma entrambi i film si vedevano in sala. (Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi).

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L'Elbano parla de Il cielo sopra Piombino

Colpo di luna (1995)

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di Alberto Simone










Regia: Alberto Simone. Soggetto e Sceneggiatura: Alberto Simone, Gioia Magrini, Dido Castelli. Fotografia: Roberto Benvenuti, Romolo Eucalitto. Montaggio: Enzo Meniconi Kohout. Musiche: Vittorio Cosma. Scenografia: Andrea Crisanti. Costumi: Beatrice Bordone, Luigi Bonanno. Produttore: Roberta Manfredi, Alessandro Olivieri. Paesi di Origine: Italia, Paesi Bassi. Durata: 86’. Genere: Drammatico. Interpreti: Tchéky Karyo, Nino Manfredi, Isabelle Pasco, Jim Van Der Woude, Johan Leysen, Mimmo Mancini, Paolo Sassanelli, Andrea Cagliesi, Davide Cincis, Barbara De Luzenberger, Andrea Giudici, Annelie Harrysson, Cinzia Mascolo, Vasco Mirandola, Daniela Rompietti, Anouschka Sarafzade, Anna Scaglione, Francesco Scali, Francesco Guzzo, Giacinto Ferro, Turi Scalia.


Colpo di lunaè l’interessante opera prima di Alberto Simone - apprezzato da Nanni Moretti - presentata al Festival di Berlino, dove è stata premiata soltanto per la bravura del cast di contorno. A nostro parere ci sono molti aspetti che rendono la pellicola importante nell’asfittico quadro cinematografico dei nostri anni Novanta. Prima di tutto la tematica disagio mentale, affrontata con leggerezza e profondità, per non parlare di una delle ultime ottime interpretazioni di Nino Manfredi. In sintesi la trama. Lorenzo (Karyo, doppiato da Roberto Pedicini) torna in Sicilia dopo la morte della madre, nella casa della sua infanzia, che deve restaurare e vendere. Prende contato con Salvatore (Manfredi) che si presenta alla villa con due insoliti aiutanti che soffrono di turbe psicologiche. Lorenzo si rende conto che a casa di Salvatore si è insediata una vera e propria comunità diretta da uno psicologo (Leysen), che si prende cura di ragazzi affetti da disagi mentali. Salvatore ha un figlio schizofrenico (Mancini) che cura con affetto, nella consapevolezza che la sua assenza nel momento del bisogno ha aggravato la malattia mentale. La madre è morta nel darlo ala luce e Salvatore è tornato a casa dalla Germania - dove si trovava per lavoro - solo cinque anni dopo. Lorenzo è uno scienziato che si occupa di buchi neri e problematiche astrofisiche, in un primo tempo vorrebbe scappare e tornare prima possibile al suo lavoro, ma poco a poco si affeziona alla comunità, vive una sorta di rapporto sentimentale con Luisa (Pasco), comincia a curare i ragazzi e decide di restare. Perfetta l’interpretazione degli attori che si calano in maniera credibile nelle turbe psichiche che devono rappresentare, dopo lunghe fasi di studio a contatto con veri malati di mente, insieme al regista e agli autori. Il film è ben sceneggiato, a parte alcuni dialoghi un po’ retorici e diverse sequenze (ben fotografate) meramente calligrafiche. Il regista cita Il posto delle fragole di Ingmar Bergman con la tematica del ritorno a casa e della riscoperta dell’infanzia grazie alle cose che si rivedono con gli occhi nuovi dell’età adulta. Tra tutti è emblematico l’episodio dell’automobile di famiglia riscoperta nel garage e rimessa in sesto per spostarsi, che produce alcuni flashback di un Lorenzo bambino seduto nei sedili posteriori. Citato esplicitamente Il dormiglione di Woody Allen, sia nel contenuto che nel dialogo della poetica sequenza. Abbiamo il tema della diversità tra Sud e Nord, la vita che va sempre di fretta, presa troppo sul serio dai milanesi, contro il fatalismo meridionale e i tempi lenti della calda Sicilia. Nino Manfredi è straordinario - pur con il suo accento ciociaro -  come vecchio lavoratore siculo, ignorante ma tutto cuore, innamorato di suo figlio e della vita. Tchéky Karyo nei panni del protagonista sfoggia sempre la stessa espressione, non è il massimo della recitazione mimica, ma in definitiva compie con diligenza il suo dovere. Contributi comunitari alla realizzazione del film  per il tema portante prettamente sociale e per aver affrontato l’argomento disagio mentale con spirito didattico (e mai didascalico). Ottima la colonna sonora realizzata da Vittorio Cosma, che si avvale di alcuni pezzi classici e sinfonici.

Alberto Simone (Messina, 1956) gira nella sua Sicilia un’opera prima ispirata e compiuta, proviene da esperienze di psicologo e psicoterapeuta, quindi conosce bene il tema di cui parla. Candidato al David di Donatello come miglior regista esordiente, ha la sfortuna di incontrare sulla sua strada uno straordinario Paolo Virzì. Produce Dauphin Film Company, fondata insieme alla moglie Roberta Manfredi (figlia di Nino), mentre il suocero collabora come attore in un ruolo che gli calza a pennello. Globo d’Oro alla migliore opera prima, assegnato dalla stampa estera. Simone non ha più girato niente per il cinema, ma ha cominciato una proficua attività come regista televisivo e sceneggiatore Rai. Ricordiamo tra i molti lavori realizzati nei due ruoli: Linda e il brigadiere (2000), Una storia qualunque (2000) - sempre con Nino Manfredi protagonista -, Un difetto di famiglia (2002), Le ragioni del cuore (2002), In nome del figlio (2008), Il commissario Manara (2009 - 2011), L’ultimo papa re (2013).

A Bigger Splash (2015)

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di Luca Guadagnino

Regia: Luca Guadagnino. Soggetto: Alain Paige. Sceneggiatura: David Kajganich. Fotografia: Yorick Le Saux. Montaggo: Walter Fasano. Scenografia: Maria Djurkovic. Costumi: Giulia Piersanti. Produttori: Michael Costigan, Luca Guadagnino. Produttori Esecutivi: Olivier Courson, Ron Halpern, David Kajganich, Marco Morabito. Case di Produzione: Frenesy Film Company, Cota Film, Mibact, Sicilia Film Commission. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 120’. Genere. Drammatico. Interpreti: Ralph Fiennes (Harry Hawkes), Tilda Swinton (Marianne Lane), Dakota Johnson (Penelope Lanier), Matthias Schoenaerts (Paul De Smedt), Aurore Clémente (Mireille), Corrado Guzzanti (maresciallo dei carabinieri), Elena Bucci (Clara), Lily McMenamy (Sylvie)



A Bigger Splash vorrebbe essere una sorta di remake de La piscina (1969) di Jacques Deray, un omaggio a una pellicola che vedeva protagonisti Alain Delon, Romy Schneider, Maurice Ronet e Janet Birkin. La storia è molto simile, quasi ricalcata pedissequamente - e non se ne comprende l’utilità - a parte la suggestiva ambientazione siciliana e i collegamenti con il mondo della musica rock. In breve la storia. Marianne Lane (Swinton) è una grande rockstar, operata alle corde vocali si reca a Pantelleria con il giovane fidanzato Paul (Schoenaerts), fotografo, ex alcolista e aspirante suicida. Un bel giorno arriva Harry (Fiennes), produttore discografico e vecchio amante di Marianne, con la figlia Penelope (Johnson). Comincia una strana storia di seduzioni incrociate, una certa simpatia pare rinascere tra Harry e Marianne, cosa che manda in crisi Paul. Finale melodrammatico quanto comico - una caratteristica dei film di Guadagnino - con la scazzottata in piscina tra Harry e Paul e la morte del primo, annegato dal secondo. I carabinieri indagano, ma un buffo Guzzanti - che quando parla siciliano sembra Franco Franchi - non giunge a capo di niente, in compenso insegue la diva del rock sotto la pioggia per chiederle un autografo. La figlia del defunto rientra a casa in aereo mentre la coppia dei fidanzati è libera di tornare alla propria vita. 



Fischi a non finire a Venezia, più che meritati, pure se agli americani - di bocca buona - pare che questa storia raffazzonata e mal copiata da un vecchio film sia piaciuto un sacco. Pochi i pregi di un lavoro inutile: la fotografia sicula (che si fa da sola), la colonna sonora e gli attori, tutti piuttosto bravi (a parte Guzzanti che è penoso) ma diretti senza nerbo e costretti a recitare un copione strampalato. La sceneggiatura è prevedibile e insulsa, il montaggio è lento e compassato, la tecnica di regia molto più classica del precedente Io sono l’amore, ma sempre condizionata dall’uso frenetico del piano sequenza, della soggettiva, della panoramica documentaristica, dei particolari inutili e dei primissimi piani. I film di Guadagnino cominciano con buone speranze, si perdono con il passare dei minuti, naufragando in un mare di banalità, approdano a finali sconcertanti, eccessivamente drammatici, da rasentare il trash e la comicità involontaria. Lavori esteticamente perfetti, meri esercizi di stile che non lasciano niente, se non un senso di fastidio per il tempo sprecato nel seguire i voli pindarici di un imitatore di Antonioni. A Bigger Splashè davvero il niente fatto cinema, pellicola sprecataavrebbe detto Fernando di Leo. 


PER VEDERLO:



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L'innocenza di Clara

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di Toni D'Angelo

Regia: Toni D'Angelo. Soggetto: Toni D'Angelo. Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Salvatore Sansone, Toni D'Angelo. Fotografia: Rocco Marra. Montaggio: Letizia Caudullo, Silvano Agosti (supervisore). Musiche: Alessandro Rinaldi (edizioni musicali Ala Bianca Group), canzone Per amarti di Bobo Rondelli. Scenografia: Carmine Guarino. Costumi: Olivia Bellini. Trucco: Marisa Marconi, Maria Vittoria Cascioli. Produttore: 13 Dicembre, con il supporto di MiBACT. Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà. Genere: Noir, Drammatico. Durata: 83'. Interpreti: Chiara Conti (Clara), Alberto Gimignani (Maurizio), Luca Lionello (Giovanni), Rosanna Gentili (Luisa), Irene Goloubeva (Angela), Giulio Beranek (Ariel), Bobo Rondelli (Marco).


Toni D'Angelo (1979) è figlio di cotanto padre, quel Nino D'Angelo che negli anni Ottanta - diretto da Ninì Grassia e Mariano Laurenti, ma pure da Romano Scandariato e da se stesso - riempiva le sale di ragazzine innamorate della nuova sceneggiata napoletana in salsa rosa. Il figlio fa tutt'altro mestiere ma dobbiamo dire che è dotato di un certo talento e di un pizzico di genialità, tra l'altro si toglie la soddisfazione di guidare il padre nel suo ultimo film - Falchi (2016) - che non abbiamo ancora avuto modo di vedere.


Alcuni suoi corti sono puro cinema impegnato (Bukowski, Casoria e Poeti), ma anche i lunghi a soggetto non sono disprezzabili e forse L'innocenza di Claraè il più intenso, capace di racchiudere tutta la poetica di un autore profondo e originale. In tempi che vedono inneggiare a registi come Guadagnino - dotati di budget esorbitanti rispetto alle idee - fa piacere vedere un piccolo film teatrale, ben diretto, fotografato con cura, sostenuto da una colonna sonora adeguata e interpretato con partecipazione dagli attori. Niente di eccezionale, si badi bene, una piccola storia di amore e morte, tradimenti, infedeltà coniugale e amicizia perduta, ma raccontata con gusto e passione. Ottima l'ambientazione tra le cave di marmo di Carrara, in uno sperduto paesino di montagna, dove Clara (Conti) è costretta a vivere un matrimonio infelice che la porta di nuovo tra le braccia del primo amante (Rondelli) e persino a illudere Giovanni (Lionello), grande amico del marito (Gimignani).


Il film è un noir che vive sul colpo di scena finale, quindi non è lecito raccontare altro a livello di trama, accenniamo soltanto alla storia collaterale di un amore giovanile contrastato da un padre padrone, che predica bene ma razzola male. Bobo Rondelli canta la sua Per amarti, accompagnandosi con la chitarra, dedicandola alla donna che lo abbandona per sposare un uomo tutto suo, anche se tornerà da lui. "Le gabbie che racchiudono gli esseri umani sono invisibili, per questo le loro sbarre risultano invalicabili...", dice l'epigrafe iniziale firmata Silvano Agosti (supervisore al montaggio), che racchiude tutto il senso del film. Non è possibile cambiare la propria natura, tanto meno fuggire da noi stessi, nonostante i buoni propositi e le costrizioni morali, quel che siamo - in definitiva - è la gabbia dalle sbarre più robuste e insormontabili. Un piccolo film da camera, teatrale, girato in gran parte tra interni claustrofobici, boschi (scene di caccia) e cave di marmo, che vede come temi di fondo l'amore coniugale e l'amor filiale, passando per l'amicizia e lo stretto legame che vincola le persone al paese natio e alle tradizioni. Buona prova d'autore, confermata da un discreto successo di critica e di pubblico al Festival del Cinema di Montreal e al Courmayeur Noir In Festival. Purtroppo sono film che vediamo in pochi...



Per vedere il film:


da Film&Clips

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Una storia milanese (1962)

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di Eriprando Visconti



Regia: Eriprando Visconti. Soggetto e Sceneggiatura: Renzo Rosso, Vittorio Sermonti, Eriprando Visconti. Fotografia: Lamberto Caimi. Montaggio: Mario Serandrei. Musiche: John Lewis. Paesi di Produzione: Italia / Francia. Casa di Produzione: 22 Dicembre di Ermanno Olmi. Durata: 80’. Genere: Sentimentale. Formato: 1.33 – Bianco e Nero – 35 mm. Interpreti: Daniéle Gaubert (Valeria), Enrico Thibault (Giampiero), Romolo Valli (padre di Giampiero), Lucilla Morlacchi (Francesca, sorella di Giampiero), Regina Bianchi (madre di Valeria), Rosanna Armani (Vicky), Anna Gael (amica di Valeria), Giancarlo Dettori (Dario), Ermanno Olmi (sig. Turchi).
Via San Marco a Milano

Un libro interessante e utile come Prandino – L’altro Visconti, scurato da Corrado Colombo (aiuto regista del Visconti meno noto) e da Mario Gerosa (esperto di cinema  a tutto tondo), edito in questi giorni da Edizioni Il Foglio, mi ha convinto a riscoprire la scarna filmografia del talentuoso regista milanese. Nove lungometraggi, in fondo, quasi tutti accomunati da un unico tema: dimostrare l’incomunicabilità tra uomo  e donna (sula scia di Antonioni) e la fragilità del rapporto sentimentale (seguendo Bergman). Eriprando Visconti (1932 - 1995) viene avvicinato dalla critica più attenta a registi come Alberto Cavallone e Cesare Canevari, per tematiche affrontate e modo di sperimentarle da un punto di vista cinematografico, esibendo anche il non mostrabile, per scelta professionale e onestà intellettuale. Eriprando Visconti, detto Prandino, sin dal primo film, pur rispettando le convenzioni cinematografiche dei primi anni Sessanta, cerca di andare oltre, mettendo in primo piano il personaggio di una donna libera, indipendente, insoddisfatta, che non si accontenta del matrimonio e di un figlio, ma che vuole essere interprete della sua vita. Valeria - che ha il volto della giovanissima quanto brava Gaubert - è una donna che lascia gli uomini, che decide la fine di un rapporto, che perde la verginità, aspetta un figlio e va ad abortire in Svizzera per non essere costretta a sposarsi, è una donna che non cerca il matrimonio come scopo di vita ma vuole essere libera da condizionamenti. Bravo anche Enrico Thibault  nel ruolo maschile da borghese innamorato, uomo del suo tempo che non comprende una donna così diversa da come dovrebbe essere secondo un ruolo assegnato dalla tradizione. I due attori principali sono giovani e alle prime esperienze ma vengono guidati con mano ferma da un regista che pretende molto da loro, soprattutto una recitazione teatrale ricca di dialoghi e di primi piani, molto impostata ma naturale, secondo regole che provengono dalla lezione neorealista.
Sequenza con Ermanno Olmi

Una storia milaneseè un film originale, girato in maniera perfetta, fotografato in un nebbioso e languido bianco e nero dal bravo Caimi, impaginato da Serandrei tra piani sequenze e primissimi piani, intensi campi e controcampi, ricco di dialoghi verbosi e complessi, sempre ben impostati. Visconti espone la sua idea di cinema e dimostra di avere le idee chiare sin dalla prima opera, anche se la gigantesca ombra dello zio peserà non poco sulla produzione futura, relegandolo ai margini del sogno. Ermanno Olmi produce e interpreta un piccolo ruolo che prevede tre lunghe sequenze insieme all’attrice principale, quasi un viatico di un grande regista a un giovane autore che descrive con sapienza la Milano del boom, le contraddizioni di una famiglia borghese, il rapporto tra padre e figlio, l’affetto complice per la sorella e la frequentazione di amici della stessa classe sociale con i quali trascorre serate sempre uguali e va a caccia in palude. Colonna sonora straordinaria di John Lewis, che comprende brani di Enzo Jannacci e di musica popolare, per una pellicola che passa dal mito americano all’esaltazione della tecnica, polemizza con la cultura classica imperante, mostra il traffico di una Milano attiva e moderna, i navigli, la campagna fredda e nebbiosa. Alcune sequenze d’amore si spingono oltre il lecito per la rigida censura del periodo storico, cosa che costa un divieto ai minori per una pellicola in ogni caso adatta a un pubblico adulto e preparato. Una storia milaneseè un film coraggioso, per niente convenzionale, una piccola storia d’amore descritta con rapide pennellate, iniziata e finita per volontà di una donna che vuole essere libera e indipendente. Un film risolto, teatrale, intenso, a tratti persino poetico, sceneggiato con cura e senza sbavature, che analizza in maniera approfondita la psicologia dei personaggi. Visconti  mette sul piatto della bilancia i temi futuri della contestazione giovanile e dell’emancipazione femminile, anticipando la lotta femminista che condurrà l’Italia ad accettare la modernità, divorzio e aborto compresi. Da rivedere, consapevoli che per essere apprezzati certi film devono essere storicizzati e lo spettatore deve calarsi nella temperie culturale che li ha prodotti.


Il disco della colonna sonora


Sequenza sul mare che ricorda il cinema di Ingmar Bergman




La monaca di Monza – Una storia lombarda (1969)

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di Eriprando Visconti


Regia: Eriprando Visconti. Soggetto e Sceneggiatura: Eriprando Visconti, Gian Piero Bona (dalla biografia di Mario Mazzucchelli). Fotografia: Luigi Kuveiller. Montaggio: Sergio Montanari. Scenografie: Flavio Mogherini. Costumi: Danilo Donati. Arredamento: Ennio Michettoni. Musiche: Ennio Morricone. Direzione Musiche: Bruno Nicolai. Produttore: Silvio Clementelli. Casa di Produzione: Clesi Cinematografica. Distribuzione: Euro International. Durata: 105’. Genere: Drammatico. Interpreti: Anne Heywood (Virginia), Antonio Sabàto (Giampaolo), Tino Carraro (monsignor Barca), Hardy Krüger (don Paolo), Luigi Pistilli (conte de Fuentes), Carla Gravina (Caterina), Margarita Lozano (suor Benedetta), Caterina Boratto (suor Francesca), Giovanna Galletti (suor Angela), Renzo Giovanpietro (Vicario), Anna Maria Alegiani (suor Ottavia), Francesco Carnelutti (cantastorie), Maria Michi (suor Bianca), Giulio Donnini (Molteno), Rita Calderoni (suor Giovanna), Laura Belli (suor Candida), Pier Paolo Capponi (conte Taverna).



La monaca di Monzaè una storia a tutti nota per merito di Alessandro Manzoni che narra le sue infelici vicende amorose ne I Promessi Sposi, per mezzo di Lucia ospite del convento lombardo dove la religiosa è reclusa. Eriprando Visconti si occupa di una storia lombarda del XVII secolo, romanzandola soltanto un poco e sceneggiandola dalla parte della donna, mettendo al centro del cupo dramma erotico una figura femminile tratteggiata con cura e approfondita nei minimi particolari. Virginia De Leyva (Heywood ) è la madre superiora di un convento di suore a Monza, dove è stata inserita per volontà del padre (finanziatore della struttura). Un giorno viene convinta da don Paolo Arrigoni (Krüger) a ospitare Giampaolo Osio (Sabàto), un donnaiolo impenitente ricercato dagli spagnoli per aver ucciso un cavaliere del re. Tra i due nasce l’amore, dopo uno stupro iniziale avvenuto con la complicità di altre suore e pure se il giovane non si limita a frequentare la madre superiora ma concede a molte suore le sue attenzioni. Virginia denuncia Giampaolo e lo fa arrestare, ma quando scopre di essere incita e partorisce una bambina riesce a favorire la sua evasione e per un certo periodo di tempo diviene la sua amante. Finale abbastanza noto e triste, con la Chiesa cattolica che si difende dallo scandalo imbastendo un processo farsa a base di orrende torture per estorcere confessioni di ogni tipo. Giampaolo viene ucciso, la monaca è reclusa in un convento di clausura, murata con mattoni e calce mentre a tutto schermo compare la parola Fine.  


Eriprando Visconti non si è mai allontanato dalla sua Lombardia nei temi affrontati, tanto che al secondo film - sette anni dopo Una storia milanese (1962) - scrive una storia lombarda (sottotitolo), preoccupandosi di salvare la reputazione di Virginia De Leyva, presentata non solo come vittima ma anche come donna coraggiosa e innamorata, capace di affrontare la Santa Inquisizione, costretta a cedere solo dopo aver subito efferate torture. Un film d’autore che non ha niente a che vedere con film derivativi ascrivibili al filone tonaca movie, così come La vera storia della monaca di Monza(1980) di Bruno Mattei, sceneggiato da Bruno Fragasso, è soltanto un remake spinto ed eccessivo a base di erotismo e torture.  Eriprando Visconti sceneggia molto bene - insieme a Gian Piero Bona - la biografia di Mazzucchelli, ne fa un dramma passionale e intenso, una storia d’amore atipica, ma anche un atto d’accusa nei confronti della corruzione delle gerarchie ecclesiastiche del tempo. Un film ingiustamente relegato tra le opere minori di un regista, che è stato oggetto di recente rivalutazione critica da Corrado Colombo e Mario Gerosa nel documentato e indispensabile Prandino - L’altro Visconti (Il Foglio, 2018).


Un cast tecnico perfetto, a partire dal regista che non sbaglia un’inquadratura, tra campi e controcampi teatrali in interni conventuali e ottime soggettive, ma anche panoramiche e carrelli esterni nelle campagne lombarde. Fotografia cupa e dai toni smorzati di Kuveiller, colonna sonora intensa e drammatica di Morricone - Nicolai, montaggio rapido di Montanari, scenografie perfette di Mogherini. Cast eccellente, a partire dall’interprete principale, l’inglese Anne Heywood, ex Miss Gran Bretagna, attiva nel poliziesco all’italiana, nel peplum e nella commedia erotica. Antonio Sabàto - noto per molto cinema di genere - è la sua spalla maschile, meno profondo della protagonista, perfetto per la parte da conquistatore avventuriero, uno spaccone amato dalle donne. Ricordiamo un’interessante Carla Gravina, una giovanissima Rita Calderoni, ma non sono da meno Laura Belli, Luigi Pistilli e Pier Paolo Capponi (attore caro a Fernando di Leo che ci ha lasciato il 18 febbraio del 2018).


Eriprando Visconti mostra nel film tutto il suo stile, a metà strada tra il cinema d’autore e la ricerca di un eccesso che scandalizza e stupisce, ma che diventa un tratto rilevante e significativo della sua opera. La figura della donna sarà sempre al centro del cinema di Visconti, bravissimo nel tratteggiare personaggi femminili, così come gli uomini sono spesso relegati ai margini della storia, meri strumenti, dipinti con tratti più caricaturali.

Per vedere una parte del film:



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Malamore (1982)

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di Eriprando Visconti


Regia: Eriprando Visconti. Soggetto e Sceneggiatura: Roberto Gandus, Eriprando Visconti. Fotografia: Luigi Kuveiller. Musiche: Aldo Savi. Montaggio: Nino Baragli. Costumi: Celia Gonzales. Scenografie: Gian Maurizio Fercioni. Formato: 1.85. Colore. 35 mm. Genere: Drammatico, Storico. Durata: 90’. Produzione: Luciano De Feo per Arcana e D.A.C.. Interpreti: Nathalie Nell (Maria, la prostituta), Jimmy Briscoe (Marcello, il nano), Antonio Marsina (Cesare), Remo Girone (Il Monco), Serena Grandi (prostituta), Leonardo Treviglio (Il cieco), ElizabethKaza (Leni, la maitresse), Leopoldo Trieste (amministratore), Cesare Barbetti (padre di Marcello), Monica Scattini (prostituta), David Brandon (maggiore Banfield), Linda Spriggs (prostituta nana), Fiorella Molinari (prostituta), Cinzia Cavalieri (prostituta), Renata Zamengo (cameriera).


Per lui tutto era troppo grande, anche l’amore, recita la frase di lancio che campeggia sui flani e nei ritagli di stampa. L’ultima pellicola di Eriprando Visconti è troppo introspettiva e viscontiana per convincere una critica ingessata e un pubblico che attende una nuova trasgressione come ai tempi de La orca. Il paragone inevitabile tra Malamore e Gruppo di famiglia in un interno (1974) fa uscire sconfitto il meno famoso nipote, portando in trionfo l’eroe proustiano di Luchino, quel Burt Lancaster che odia la modernità e si rifugia in un mondo composto da antiche certezze. 


L’interpretazione più lucida di Malamorela dobbiamo a Corrado Colombo - profondo conoscitore dell’opera del Maestro - che pone l’accento sulla metafora del nano vista come fallimento esistenziale e il profondo disagio di accettare se stessi. La storia è molto piccola, ma profonda e ben sceneggiata, anche se spesso rischia di arrotolarsi su se stessa e di ripetere concetti già espressi. Tutto ruota attorno a un’idea forte e originale, trasgressiva come gran parte del cinema di Visconti: il racconto dell’amore impossibile tra un nano e una puttana. La meschinità è la nota dominante di una pellicola dove tutti sfruttano gli altri e stanno insieme soltanto per bisogno e interesse. In un quadro di malaffare la sola ad avere un briciolo di cuore è la puttana che finisce per sacrificare la sua vita a un malinteso amore nei confronti del nano, che salva da morte sicura. Il nano resta solo con la sua bella ridotta a un essere che nessuno vuole, proprio come lui, che ha perso la madre nel giorno del concepimento e il padre in un incidente di guerra. 


Malamoreè costellato di personaggi squallidi e senza scrupoli, da una laida maitresse (Kaza) che approfitta di un cieco per fare l’amore, a un monco (Girone) che progetta la morte del nano, all’amante diabolico (Marsina) che sfrutta la prostituta per interesse, fino al nano che ottiene quel che vuole per mezzo del denaro. Il senso profondo del film sta tutto in un dialogo tra il nano e la puttana: Potresti innamorarti di un nano?, E tu ti metteresti con una puttana?. Interpreti ben calati nei ruoli, da Briscoe e Nell, fino a Marsina e Girone, passando per Kaza e un poco utilizzato Trieste, persino per Scattini e Grandi, credibili come prostitute d’epoca. Malamoreè una storia che dà risposte certe a interrogativi impossibili, un melodramma debitore per atmosfere al cinema di Matarazzo e per profondità introspettiva a Luchino Visconti. Puro cinema storico e di sentimenti, ambientato benissimo ai tempi della Prima Guerra Mondiale, con gli austriaci invasori che bombardano, fucilano traditori e disertori, in una villa dell’Oltrepo Pavese, residenza di Visconti da sfollato. 


Tecnica di regia ai massimi livelli, perfetta per illuminare le zone d’ombre della vita (Colombo), che mette in risalto i tempi morti e un montaggio compassato, accompagnato da una fotografia morbida e avvolgente. Il pessimismo è la nota dominante del film, costante psicologica che accompagna la vita del regista, ma non per questo la messa in scena è meno imponente, la ricostruzione di un bordello d’epoca è perfetta nei minimi particolari e i costumi sono molto viscontiani. Malamoreè impaginato con passione e senza risparmio, molto teatrale, ricco di dialoghi letterari costruiti da Gandus e Visconti, arricchito da carrellate e panoramiche, primi piani e soggettive, intensi piani sequenza. Cinema d’autore realizzato con un budget modesto che apprezzano in pochi - le eccezioni critiche sono tutte datate anni Novanta - oltre a non riscuotere l’interesse del pubblico. Testamento spirituale di Eriprando Visconti, che dopo questo plateale insuccesso non farà più cinema, lasciandoci la sua metafora terminale di un amore vissuto fuori sintonia con la vita. Da riscoprire.

Alcune sequenze di Malamore


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Una spirale di nebbia (1977)

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di Eriprando Visconti




Regia: Eriprando Visconti. Soggetto: Michele Prisco (romanzo omonimo). Sceneggiatura: Fabio Mauri, Roselyne Seboue, Lisa Morpurgo, Luciano Lucignani, Eriprando Visconti. Fotografia. Blasco Giurato. Montaggio: Kim ARcalli. Costumi: Clelia Gonzales. Musiche: Ivan Vandor. Formato: 1.85. Colore. 35 mm.. Durata: 88’. Produzione: Serena. Interpreti: Marc Porel (Fabrizio Sangermano), Stefano Satta Flores (Giudice Marinoni), Carole Chauvet (Valeria, moglie di Fabrizio), Flavio Bucci (Vittorio, l’amico medico), Duilio Del Prete (Marcello, avvocato di famiglia), Claude Jade (Maria Teresa, moglie di Marcello), Martine Brochard (Lavinia, infermiera e amante di Vittorio), Eleonora Giorgi (Lidia, fidanzata del Giudice Marinoni), Corrado Gaipa (il patriarca della famiglia Sangermano), Marina Berti (Costanza Sangermano), Barbara Piulavin (Madre del Giudice Marinoni), Victoria Zinny (governante casa Sangermano), Anna Buonaiuto (cameriera), Roberto Posse (Molteni). (La scheda del film è stata presa da Prandino – L’altro Visconti di Colombo e Gerosa, Edizioni Il Foglio, 2018).



Una spirale di nebbiaè un thriller psicologico sceneggiato sulla base del romanzo di Michele Prisco (1966), vincitore del Premio Strega e basato su una serrata critica alla borghesia partenopea. Eriprando Visconti legge l’opera dello scrittore, nota affinità con le tematiche che gli sono più care, ambienta l’azione nella amata Lombardia e il gioco è fatto. Il regista serve allo spettatore un piatto prelibato a base di crisi coniugali, famiglie borghesi in disfacimento e netto rifiuto dell’istituzione matrimoniale. Tutti temi già presenti nello stupendo debutto de Una storia milanese, qui molto stemperati e resi meno chiari da una sceneggiatura non troppo felice. Non è facile sintetizzare una trama basata sul racconto di alcune crisi coniugali borghesi, un vero e proprio romanzo corale impaginato su diversi rapporti che si stanno consumando su loro stessi per svariati motivi.


Nel corso di una battuta di caccia, fuori dalla loro residenza di campagna, Fabrizio (Porel) uccide con un colpo di fucile la moglie Valeria (Chauvet). Non ci sono testimoni, se non indiretti. Maria Teresa (Jade), cugina di Fabrizio, è convinta che l’uomo sia innocente. Marcello (Del Prete), avvocato di famiglia, segue il caso dall’esterno e cerca di modificare il corso giudiziario. Il giudice Marinoni (Satta Flores) indaga ma trova solo indizi e non certezze. Maria Teresa è sposata con Marcello, presto scopriamo che il marito è impotente e nonostante tutto sostiene di aver messo incinta la cameriera e vuole riconoscere il figlio che la donna ha concepito con l’autista. Il film è sceneggiato in maniera abbastanza confusa e ruota attorno alle indagini del Giudice Marinoni sul caso di omicidio (colposo o volontario?), fino al finale aperto, inquietante e suggestivo, nel quale il mistero resta avvolto da una spirale di nebbia. Visconti non è interessato tanto alla trama e al successo di pubblico che potrebbe riscuotere un thriller ricco di colpi di scena.


Non è il suo genere di film. Lo spettatore se ne rende conto dalle sequenze esplicite di sesso e dai molti (persino troppi) nudi integrali di cui è costellata la pellicola. Visconti vuol trasgredire, come sua regola, persino infastidire, descrivere lo squallore di alcuni rapporti matrimoniali per puntare il dito accusatore su un istituto che ritiene inutile e superato. Un film mai così moderno come di questi tempi in cui il matrimonio è diventato uno stupido gioco al massacro senza alcuna importanza di sacramento o di impegno civile per costituire una famiglia. Visconti racconta famiglie disgregate, mariti impotenti, compagni masochisti, mogli sadiche, fidanzate moderne che non vogliono sposarsi, amanti delusi, rapporti rubati fuori dalle mura domestiche, uomini vigliacchi e bugiardi. La borghesia è sul banco degli imputati, i rapporti matrimoniali vengono fustigati come la tomba di un amore che si stempera sempre più e finisce nel niente, in una spirale di nebbia, appunto. E non è importante che quel colpo di fucile che uccide Valeria sia stato sparato volontariamente – come pare – da Fabrizio, quel che conta è che ha posto la parola fine a un rapporto che sarebbe dovuto terminare molto tempo prima.


Attori bravi, dai francesi Porel, protagonista indiscusso, e Chauvet, fino agli italiani Satta Flores e Giorgi (in un ruolo breve ma inteso da fidanzata moderna del giudice), passando per Jade e Brochard, fino a un insolito Del Prete. Ottima l’ambientazione milanese, tra brughiere e nebbia, in una campagna ben fotografata nei suoi acquitrini fangosi e alberi resi spogli dal gelo autunnale. Buone le parti teatrali e i dialoghi, anche se il film tarda a mettersi in moto e risente di una partenza troppo lenta, resa ostica da un incedere per flashback. La tecnica di Visconti è ai massimi livelli, l’uso continuo – persino eccessivo – del piano sequenza è il marchio del grande regista che porta la macchina presa a indagare nelle camere borghesi dove si consumano torbidi amori.


Il clima del film è malsano, grazie a personaggi sgradevoli che mettono in luce tare ereditarie e realistici difetti umani. Il sesso esibito non è mai gioioso e liberatorio alla Tinto Brass, ma cupo e angoscioso alla Cavallone, dispensato a piene mani con voglia di trasgredire e di stupire, per far assegnare al film un divieto ai minori che limita la presenza del pubblico. Una spirale di nebbia non è un film facile, non va bene per tutti i palati e non è l’ideale per passare una serata spensierata. Necessita di essere storicizzato, per una buona comprensione va calato nella realtà italiana di fine anni Settanta, ma risulta più che mai moderno e attuale.


Per vedere il film:





Gordiano Lupi parla del Foglio Letterario a Fauglia

Trionfano i Manetti Bros

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David di Donatello a pioggia per Ammore e malavita





Vince l’originalità dei Manetti al David di Donatello. Ammore e malavita si porta via diverse statuette: miglior attrice non protagonista (Claudia Gerini), colonna sonora (Pio e Aldo De Scalzi), canzone originale (Bang Bang di Pio e Aldo De Scalzi), costumi (Daniela Salernitano) e soprattutto miglior film, il premio più ambito. Ripercorriamo brevemente la carriera dei due registi romani, che nascono dall’underground e che ricordiamo di aver conosciuto circa vent’anni fa, a Livorno, nel corso di Joe D’Amato Horror Festival. Originali sin da Consegna a domicilio, episodio del film collettivo DeGenerazione (1995), interessanti nel graffiante Zora la vampira (2000), nel thriller Piano 17 (2005), seguito dai più anonimi Cavie (2009) e L’arrivo di Wang (2011), sono autori del primo film italiano in 3 D con l’angosciante e claustrofobico Paura(2012). Il successo arriva improvviso con Song’e Napule (2013) e con la conferma di Ammore e malavita (2017). Importante la televisione con le serie di successo Ispettore Coliandro, Crimini e Rex 7 e 8, media che li aveva visti debuttare con l’insolito Torino Boys (1997). I Manetti hanno anche prodotto due horror a basso costo molto interessanti di Gabriele Albanesi (Il bosco fuori e Ubaldo Terzani Horror Show) e molti videoclip.

Trionfa Napoli al David di Donatello, perché Napoli velatavince come miglior scenografia (Denis Gogturk) e fotografia (Gian Filippo Corticelli), mentre il regista Giuliano Montaldo è miglior attore non protagonista per Tutto quello che vuoidi Francesco Bruni. Donato Carrisi è il miglior regista esordiente (La ragazza nella nebbia), Stefania Sandrelli vince un David Speciale, Steven Spielberg e Diane Keaton due David alla Carriera. Grande successo per il musicale - biografico Nico di Susanna Nicchiarelli - che in provincia abbiamo visto grazie ai Cineclub e alle sale di essai - che vince quattro David: sceneggiatura originale, trucco (Marco Altieri), acconciature (Daniela Altieri) e suono. Premi anche per Riccardo va all’inferno(costumi), Jasmine Trinca (attrice protagonista in Fortunata), Renato Carpentieri (attore protagonista ne La tenerezza) e il giovane Jonas Carpignano (miglior regia con l’intenso A’ Ciambra). Sicilian Ghost Storyvince per la miglior sceneggiatura non originale. Alfonso Goncalvez prende un David per il montaggio accurato e rapido di A’ Ciambra, Gatta cenerentola vince come miglior produzione ed effetti digitali, mentre La lucida follia di Marco Ferreri si prende il David per il miglior documentario. David Giovani a Francesco Bruni per Tutto quello che vuoi.


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Per conoscere Fernando di Leo - 2

Per conoscere Fernando di Leo - 6

Conversazione su Fernando di Leo

La carne (1991)

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di Marco Ferreri


Regia: Marco Ferreri. Soggetto: Marco Ferreri. Sceneggiatura: Marco Ferreri, Liliana Betti. Collaboratori alla Sceneggiatura: Massimo Bucchi, Paolo Costella. Fotografia: Ennio Guarnieri. Colore: Technicolor. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Scenografia: Sergio Canevari. Costumi: Nicoletta Ercole. Trucco: Luigi Rocchetti. Aiuto Regista: Paolo Costella. Direttore di Produzione: Maria Grazia Dabalà. Fonico in Presa Diretta: Jean Pierre Ruu.  Produttore: Giuseppe Auriemma. Organizzatore Generale: Valentino Signoretti. Casa di Produzione: M.M.D.. Durata: 90’. Genere: Erotico, Grottesco. Interpreti: Sergio Castellitto, Francesca Dellera, Philippe Léotard, Farid Chopel, Petra Reinhardt, Gudrun Gundlach, Nicoletta Boris, Massimo Bucchi, Sonia Topazio, Pino Tosca, Eleonora Cecere, Matteo Ripaldi, Clelia Piscitello, Elena Wiedermann, Fulvio Falzarano, Daniele Fralassi, Salvatore Esposito.


Marco Ferreri (Milano, 1928 - Parigi, 1997) è un regista colto e raffinato, più amato in Francia che nel suo paese, dimenticato dopo la sua morte. Si avvicina al cinema dopo aver fatto il rappresentante di liquori, comincia dalla pubblicità e dalla produzione (con Zavattini), conosce il giovane umorista Rafael Azcona e dà un svolta alla sua carriera. I suoi tre film di esordio - El pisito, Los chicos, El cochecito(1958 - 60) - sono realizzati in Spagna con la collaborazione di Azcona e segnano i tratti fondamentali della sua vena autoriale: il sarcasmo e il grottesco. In Italia segnaliamo, in piena sintonia con l’esordio iberico: L’ape regina (1962) , La donna scimmia (1963), Il professore (in Controsesso) (1964). Ferreri realizza le cose migliori quando usa sarcasmo, metafora e paradosso, gira film dissacranti basati sul pessimismo nei confronti di uomo e società, polemizza contro le istituzioni e attacca un sistema che non condivide. Tra i suoi film memorabili citiamo: La cagna (1971), L’udienza (1971) - in corso di restauro -, La grande abbuffata (1973), Non toccare la donna bianca (1974), L’ultima donna (1975), Dillinger è morto(1968), Ciao maschio (1977), Storie di ordinaria follia (1981), Storia di Piera (1982), Il futuro è donna (1986), Come sono buoni i bianchi (1986), La carne (1991). Trenta film in carriera, l’ultimo - mai visto - Nitrato d’argento (1995), lavoro - testamento dedicato a un cinema che non esiste più. 


Abbiamo rivisto La carne, una delle sue ultime cose, tra le più dissacranti ma anche tra le meno riuscite, che tenta di far recitare persino una Francesca Dellera, davvero negata per il cinema impegnato, ma che gode di un Castellitto in gran forma, perfetto per un’interpretazione sopra le righe. La carne ha come tema di fondo l’incomunicabilità tra uomo e donna, la distanza abissale che separa due mondi, due modi diametralmente opposti di intendere la vita. Protagonista di un film pervaso di umorismo grottesco è Paolo (Castellitto), impiegato comunale e cantante di piano bar, separato da una moglie che non vuol più vedere, con due figli e un cane (la sola presenza che rimpiange). Un bel giorno incontra Francesca (Dellera) - la scelta dei nomi rappresenta bene la dose di ironia - e per lei abbandona tutto, dal lavoro agli amici, ritirandosi a vivere nella sua casa sulla spiaggia di Anzio, tra eccessi di sesso e di cibo. 


Il film è pervaso di metafore, dialoghi e situazioni surreali, dal rapporto madre - figlio, che il protagonista subisce anche dopo la morte, fino all’impossibilità di sostenere un dialogo con la donna e con gli stessi figli. “Una prima comunione non si nega a nessuno”, è il leitmotiviniziale, quando viene a sapere che la moglie non vuol comunicare i figli e lui ricorda la madre nel giorno di un sacramento celebrato di nascosto dal padre. Ma abbiamo anche il solito contrasto con la società dei consumi rappresentato dalla ingombrante presenza della Coca Cola, così come il rifiuto di pronunciare la parola osceno, che Ferreri sentiva spesso ripetere riferita ai suoi film. Molta musica d’autore interpretata da Castellitto, da Bartali (Conte), a Gesù Bambino (Dalla), passando per Buonanotte fiorellino (De Gregori), Una spiaggia solitaria (Battiato) e Se ti tagliassero a pezzetti (De Andrè), ma anche qualche bolero sudamericano, Innuendodei Queen e qualche pezzo di flamenco rendono interessante la colonna sonora. 


Molte le metafore che oggi rivediamo nei film di Sorrentino, come la donna incinta che allatta e le cicogne che compaiono nel finale per significare un desiderio represso di maternità. Infine giunge il solo  modo che ha l’uomo per tenere la donna con sé, per non perderla, assecondare il desiderio cannibale degli amanti, trasformarla in carne e mangiarla, visto che è impossibile capirla. La carneè un film intriso di erotismo viscerale, ben fotografato da Guarnieri, tra poetici tramonti e albe suggestive sul mare, molto teatrale, girato quasi tutto in interni. Un lavoro criptico e complesso, che si comprende più oggi che al tempo della sua uscita in sala, quando i critici erano attenti soprattutto allo scandalo, mentre il pubblico affollava le sale solo per vedere Francesca Dellera. 

La prorompente attrice di Latina - lanciata da Tinto Brass con Capriccio (1988) - raggiunge il successo internazionale proprio con La carne, ma subito dopo comincia la sua fase calante. Ferreri la definisce la pelle più bella del cinema italiano e lo stesso Fellini la vorrebbe nel suo Pinocchio- mai realizzato a causa della morte del regista - come Fata turchina. Tullio Kezich afferma entusiasta che quando è vestita sembra nuda e quando è nuda sembra vestita. Tutti eccessi anni Ottanta, adesso molto stemperati. Ricordiamo solo che La carneè uno dei pochi film in cui la sentiamo recitare con la propria voce e non è il massimo. Per il ruolo di Paolo, Ferreri avrebbe voluto Villaggio, ma in definitiva Castellitto è perfetto per la parte. Presentato in concorso - con poco successo - al 44° Festival di Cannes. Non è il miglior Ferreri.

Il mio cinema è su Futuro Europa: http://www.futuro-europa.it/dossier/cineteca

Gruppo di famiglia in un interno (1974)

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di Luchino Visconti





Regia: Luchino Visconti. Soggetto: Enrico Medioli. Sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Luchino Visconti. Fotografia: Pasqualino De Santis. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Aiuto Regista. Albino Cocco. Versione Italiana: Mario Maldesi. Direttore della Produzione: Lucio Trentini. Produttore. Giovanni Bertolucci. Case di Produzione: Rusconi Film spa (Roma), Gaumont International sarl (Parigi). Ispettore di Produzione: Federico Tocci. Segretario di Produzione: Federico Starace. Assistenti Regia: Giorgio Treves, Louise Vincent, Alessio Girotti. Segretaria di edizione: Renata Franceschi. Assistenti Montaggio: Lea Mazzocchi, Alfredo Menchini. Operatori alla Macchina: Nino Cristiani, Mario Cimini. Assistenti Operatori: Marcello Mastrogirolamo, Gianni Maddaleni, Adolfo Bartoli. Fotografo di Scena: Mario Tursi. Fonico: Claudio Maielli. Microfonista: Decio Trani. Aiuti Scenografi: Ferdinando Giovannoni, Nazareno Piana. Arredatore: Carlo Gervasi. Trucco: Alberto De Rossi, Eligio Trani. Parrucchieri: Maria Teresa Corridoni, Aldo Signoretti. Sarte: Maria Fanetti, Giuseppina Delli Carpini. Dati Tecnici: Technicolor - Girato in Todd-Ao. Esclusività E.C.E. Roma. Teatri di Posa: Dear spa, De Paolis srl. Registrazioni: International Recording spa. Voci: Cine Video Doppiatori. Edizioni Musicali: Curci (Milano) Brani Musicali di Wolfang Amadeus Mozart: Vorrei spiegarvi, oh Dio! - soprano Emilia Ravaglia; Sinfonia Concertante K 364 - violino Josef Suk, viola Josef Kodousek, Orchestra da camera di Praga. Scenografia. Mario Garbuglia. Arredamento: Dario Simoni. Costumi: Vera Marzot. Musiche: Franco Mannino (dirette dall’autore). Abiti: Yves Saint Laurent (Berger); Fendi (sartoria) e Piero Tosi (idea) (Mangano); Sartoria Tirelli (altri attori). Effetti Speciali: E. e G. Bacciucchi. Paesi di Produzione: Italia, Francia. Interpreti: Burt Lancaster, Helmut Berger, Silvana Mangano, Claudia Marsano, Stefano Patrizi, Elvira Cortese, Philippe Hersent, Guy Trejant, Jean Pierre Zola, Umberto Raho, Enzo Fiermonte, Romolo Valli, George Clatot, Valentino Macchi, Vittorio Fanfoni, Lorenzo Piani, Margherita Horowitz.


La trama di Gruppo di famiglia in un interno- penultimo film di Visconti - si riassume in poche righe e non è certo la cosa più importante. Un maturo professore statunitense (Lancaster) decide di isolarsi dal mondo nella sua casa romana, ereditata dalla madre italiana, dedicandosi ai libri, alla musica classica e alla sua collezione di dipinti.  A un certo punto il monotono incedere della sua vita viene turbato, persino sconvolto, dalla comparsa della ricca quanto volgare marchesa Bianca Brumonti (Mangano), che convince il professore ad affittare l’appartamento al piano superiore per farci vivere Konrad (Berger), il suo giovane amante. Gli eventi successivi complicano l’esistenza del professore, dai lavori per modificare la casa che danneggiano il piano inferiore, fino al singolare rapporto erotico che riguarda Lietta (Marsano), la figlia della marchesa, il compagno Stefano (Dionisi) e Konrad. 


Un atipico gruppo di famiglia in un interno, dal quale il professore sarebbe escluso per motivi anagrafici e culturali, nonostante provi un mix indefinibile di attrazione e repulsione verso i suoi giovani componenti. Il professore grazie al nuovo che irrompe torna ad apprezzare la vita, dopo un esilio volontario dovuto alla scomparsa degli affetti più cari (madre e moglie compaiono in rapidi flashback onirici), anche grazie agli eccessi che non condivide. Una vita che nonostante tutto sta per finire, come il suicidio di Konrad (resta il dubbio di un omicidio politico) si sforza di sottolineare, mentre la macchina da presa insiste sul professore che dal letto ascolta i metaforici passi di un terribile inquilino (la morte) al piano superiore.


Luchino Visconti gira il suo ultimo film personale - due anni prima di morire e poco prima del convenzionale L’innocente - scrivendo e sceneggiando un soggetto di Medioli, insieme a Suso Cecchi D’Amico, che si confronta con il mondo contemporaneo, i problemi politici, il rapporto tra generazioni, la droga, il sesso e la difficoltà di capire il tempo che passa modificando valori e ideologie. Grande interpretazione di Burt Lancaster (il personaggio scritto da Visconti è ispirato a Mario Praz ma è pure autobiografico), che - ben doppiato da Massimo Foschi - vince un meritato David di Donatello come miglior attore straniero. Helmut Berger è straordinario come controparte, perfetto per dare un volto e un carattere a un giovane bellissimo, quanto amorale e privo di scrupoli. Silvana Mangano si cala bene nei panni della contessa arricchita, volgare e burina, che conduce una vita dissoluta. Non è un ruolo facile, se si pensa che Audrey Hepburn aveva rifiutato la parte ritenendola negativa per la sua carriera. 


Diligenti ma non perfetti i giovani Stefano Dionisi e Claudia Marsano (Nastro d’argento come miglior attrice debuttante), mentre si ricordano i rapidi camei - sotto forma di flashback - di Dominique Sanda e Claudia Cardinale. Luchino Visconti gira da maestro un film teatrale, ben fotografato da De Santis e montato a dovere da Mastroianni, ambientato negli interni Dear e De Paolis, arricchito da una notevole costruzione scenografica e una cura certosina per gli arredamenti. Vince un David di Donatello e un Nastro d’Argento come miglior film, ma vengono premiate anche scenografia e costumi, che seguono la grande lezione de Il gattopardo. Pellicola girata in inglese e doppiata in italiano, per l’edizione di  Mario Maldesi, che si avvale di una straordinaria colonna sonora composta e diretta da Franco Mannino, un gradevole mix di momenti classici (Mozart) e suggestioni pop con brani cantati da Caterina Caselli (Desiderare, Momenti sì momenti no) e Iva Zanicchi (Testarda io).


Gruppo di famiglia in un interno a tratti ricorda le suggestioni di Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini, ma la parte politica e antiborghese è la più datata, quello che non va perduto sono le considerazioni poetiche come i vecchi amanoil ricordo del maree la solitudine anche se chi sta solo e cade non avrà nessuno a sollevarlo. Il carattere del professore viene fuori a poco a poco per immagini e rapide considerazioni, gli eventi della sua vita sono narrati a piccole dosi, come brevi ricordi, dalla guerra mondiale alla rinuncia al lavoro di scienziato, passando per la scomparsa di madre e moglie. Il messaggio, indenne al tempo che passa, mette in primo piano il rapporto generazionale, il dialogo tra vecchi e giovani, la voglia di un uomo maturo di avere un figlio al quale poter insegnare le poche cose che ha imparato. 


Il regista descrive il rapporto complesso tra il professore e Konrad - quel figlio che avrebbe potuto avere - e tutte le contraddizioni che legano due uomini così distanti eppure così uniti da un identico afflato culturale. “I vecchi diventano strani animali, intolleranti, solitari …”, dice il professore al suo singolare gruppo di famiglia prima di un violento attacco contro la società capitalistica e borghese, dopo aver espresso tutto il suo disprezzo per la società consumistica. “Tutto è stato molto peggio di quanto potevo immaginare, ma in ogni caso voi potevate essere la mia famiglia”, conclude. La parte più intensa del film vede Burt Lancaster impegnato in un monologo letterario su come una parvenza di famiglia e la speranza di un figlio sia riuscita a risvegliarlo da un lungo sonno, allontanando per poco timori e paure. Ma nel finale tutto torna come prima, anzi, i passi della morte che vaga per le stanze del piano superiore diventano più intensi e si fanno più vicini. Un film che è invecchiato molto bene. Da rivedere.

Per vedere il film:



Il mio cinema è su Futuro Europa: http://www.futuro-europa.it/dossier/cineteca
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