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Le trasgressioni di Gualtiero Jacopetti

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Gualtiero Jacopetti è un toscano della Garfagnana, nasce nel 1919 a Barga, paese caro a Giovanni Pascoli che lo immortalò definendolo con magici versi il suo “cantuccio d’ombra romita”. Jacopetti intraprende la carriera militare, combatte nella seconda guerra mondiale come ufficiale di collegamento ed è collaboratore del controspionaggio americano. Finita la guerra fa il propagandista per la Democrazia Cristianae con la sua azione contribuisce alla vittoria nel referendum sul blocco socialcomunista alle elezioni politiche del 1948. Nel primo dopoguerra, su consiglio e raccomandazione dell’amico Indro Montanelli, si dà al giornalismo e scrive articoli di costume  e attualità su Oggi, Il Corriere dellaSera e La Settimana Incom. Per il giornale di via Solferino fa l’inviato speciale, alla Settimana Incomè capo redattore, infine fonda e dirige il settimanale Cronache. I primi contatti di Jacopetti con il mondo delle immagini avvengono nel 1950 e riguardano i commenti sonori del cinegiornale Settimana Incom e della rubrica televisiva Cineselezione.


La vita di Jacopetti pare orientata a grandi successi nel mondo del giornalismo, ma la sua vita privata desta scalpore e attenzione da parte dei media per le continue conquiste femminili. Jacopetti è un tipo interessante che piace alle donne e lui ne è consapevole, tanto che gioca molto sulla sua fama di rubacuori. Nel febbraio del 1955 uno scandalo sessuale porta Jacopetti alla ribalta delle cronache e lo travolge. La giovane zingara Jolanda Kalderas, una ragazzina di appena dodici anni, accusa Jacopetti e il suo amico Pier Luigi Buzzetti di averla portata in un appartamento di via San Giovanni Decollato per violentarla in presenza di una giovane donna. L’identità della donna che osserva l’episodio di violenza resta avvolta nel mistero e la fantasia dei giornalisti si sbizzarrisce per dare un nome a quella che venne indicata come Annie (o Anny). Pare che sia lei a organizzare tutto e alcuni media indicano diversi nomi di ragazze della Roma -bene ma non si scopre niente di certo. Il reato di violenza carnale è perseguibile solo su querela da parte dei genitori della minorenne, ma la giustizia indaga ugualmente. Jacopetti e Buzzetti sono accusati di violenza carnale e ratto a scopo di libidine.


In un primo tempo i due si danno alla latitanza per far affievolire lo scandalo, ma un mese dopo Jacopetti compare davanti al Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, Mario Bruno, per rispondere alle accuse. A questo punto Jacopetti si mette alla ricerca dei genitori della ragazzina e tenta di chiudere lo scandalo in maniera stragiudiziale. La madre sarebbe d’accordo a sistemare tutto con un congruo assegno, ma per fermare la macchina processuale serve il parere favorevole del padre che pare introvabile. Domenico Kalderas forse è in galera o forse è morto, nessuno può saperlo. Jacopetti, disperato ma deciso a risolvere il grave problema, alla fine lo rintraccia a Mirandola presso una carovana di zingari. Jacopetti e il padre della ragazza vanno a cena insieme, corrono soldi e promesse, alla fine il Kalderas decide di ritirare ogni denuncia. Non va tutto bene, però. Polizia e carabinieri sono ancora sulle tracce di Jacopetti che viene arrestato al termine della cena insieme al padre della ragazza. Il giornalista esibisce la dichiarazione autografa dei genitori, sostiene che ogni accusa è decaduta, ma la polizia non sente ragioni e Jacopetti viene tradotto in carcere.


Jacopetti e Kalderas trascorrono un breve periodo a Regina Coeli, il padre della zingara ritratta la dichiarazione firmata e si decide a inoltrare la querela di parte che innesca l’azione penale contro il giornalista. C’è il sospetto che lo zingaro venga obbligato da qualcuno ma è impossibile sapere la verità. Fatto sta che Jacopetti si trova con le spalle al muro e l’unica via d’uscita concessa dalla legislazione del tempo è un matrimonio riparatore. Il giornalista paga una forte somma alla famiglia a titolo di risarcimento danni (un milione di lire) ed è costretto a sposare la ragazzina violentata in un clima da commedia all’italiana. Le nozze vengono celebrate nella prigione di Regina Coeli e sono una farsa perché subito dopo la cerimonia la sposa rientra nella tribù zingara e Jacopetti presenta domanda per ottenere l’annullamento. Lo scandalo travolge la popolarità di Jacopetti e provoca la chiusura del settimanale Cronache, un giornale liberale considerato precursore de L’Espresso, tra i primi in Italia a parlare di divorzio.


Jacopetti sfoga tutta la sua acrimonia nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine nel libro Lettera aperta al Procuratore Generale. Il libro colpisce nel segno ma per Jacopetti ci sono ancora guai giudiziari sotto forma di reati commessi a mezzo stampa e per nuovi atti di libidine su minori. Il giornalista viene accusato di aver tentato di rimorchiare due ragazzine incontrate al Luna Park. Jacopetti è definito un soggetto socialmente pericoloso, viene diffidato a tenere una condotta irreprensibile se non vuole incorrere nella libertà vigilata e addirittura nel confino di polizia. Jacopetti è sconcertato, soprattutto per le ammonizioni che riguardano le cose scritte nel libro che fanno pur sempre parte della libertà di espressione. La sua condotta morale e la passione per le ragazzine saranno una costante della sua vita, croce e delizia di un’esistenza spesso sofferta (1).


Jacopetti, su consiglio dell’editore Rizzoli, abbandona la carta stampata e fonda il cinegiornale settimanale Europeo Ciak che resiste dal 1956 al 1959 con un tipico taglio anticonformista e irriverente, soprattutto verso i politici. La censura si scatena contro lo stile di Jacopetti che non si assoggetta a nessun tipo di servilismo e di retorica. Pier Francesco Pingitore e Mino Argentieri si ribellano al suo modo di fare giornalismo per immagini e cercano di screditare la figura dell’uomo per sminuirne l’opera. Jacopetti va avanti per la sua strada, per tre anni seduce il pubblico con la sua critica irriverente e a tratti qualunquista, ma sempre originale e frizzante. Ieri, oggi edomaniè un altro cinegiornale prodotto da Jacopetti per conto dell’editore Rizzoli che ricalca la solita formula.


Gualtiero Jacopetti resta nella storia del nostro cinema biscome inventore dei mondo movies, ma prima di passare alla macchina da presa il giornalista cura i commenti di Europa di notte di Alessandro Blasetti (1959), Il mondo di notte di Luigi Vanzi (1960), L’America vista da un francese di Françoise Reichenbach (1960) e Che gioiavivere!Di René Clement (1961). Da queste collaborazioni viene fuori la sua intuizione di un cinegiornale sugli orrori e le storture di un mondo che sta cambiando. Franco Prosperi accoglie l’idea di Jacopetti con entusiasmo e subito viene composta una squadra di quattro persone che gira il mondo a caccia di immagini interessanti. I testi sono scritti da Jacopetti che gira le immagini e le monta, mentre Prosperi partecipa in prima persona alle riprese e alla scelta di location e argomenti. Vengono fuori due documentari che ancora oggi sono considerati cinema di culto: Mondo cane e La donna nel mondo. Gualtiero Jacopetti durante la lavorazione di questi documentari non viene meno alla sua fama di depravato e viene accusato di atti contro la morale e tentata violenza carnale nei confronti di tre bambine di undici anni. Nell’estate del 1960 Jacopetti è condannato dal tribunale di Hong Kong a tre mesi di reclusione. Mario Castellacci - a proposito della condanna di Jacopetti - scrive su Lo Specchio un sonetto irriverente che comincia così: “Mondo cane! gridava Gualtiero,/ stavolta m’ingabbiano davvero”.


Finita la condanna Jacopetti termina le riprese de La donna nel mondo e subisce un dramma personale che lo segna per lungo tempo. Nel 1961, a causa di un incidente d’auto in California muore Belinda Lee, affascinante attrice americana che da qualche anno è sua compagna di vita. Jacopetti se la cava con una frattura alla gamba e per un po’ di tempo deve camminare con un bastone. Mondo cane esce in Italia nel 1962 ed è preceduto dalle polemiche sulle vicende penali di Jacopetti e dalle leggende metropolitane in merito alla vita dissoluta che il regista avrebbe condotto in Africa e in Oriente. L’incasso di Mondocaneè fantastico, pure perché il film è interessante e rappresenta una novità nel panorama della documentaristica italiana. La colonna sonora di Riz Ortolani (lo stesso autore di Cannibal Holocaust) è una delle componenti che contribuisce a valorizzare il film. Lo stile di Jacopetti è fatto di un continuo alternarsi di immagini efferate e paradisiache, di cazzottate nello stomaco e di momenti sentimentali, di violenza e dolcezza, di riflessioni sulla vita che cambia e commenti pseudo razzisti. Il montaggio è serrato, la fotografia azzeccata, le locationes suggestive, l’idea in sé molto originale. Il successo porta Jacopetti a realizzare subito dopo Mondo cane 2 con gli scarti del primo film, inaugurando una tendenza italiana al recupero che farà la gioia di cineasti come Joe D’Amato.


I tre documentari di Jacopetti sono un trionfo al botteghino e rappresentano i maggiori successi di incasso del periodo 1962 - 63. Solo i critici non sono d’accordo e accolgono con sonore stroncature i documentari di Jacopetti e Prosperi così amati dal pubblico. Il critico de IlBorghese, giornale culturale di destra, Claudio Quarantotto rappresenta un’eccezione alla regola e apprezza i film di Jacopetti proprio per la crudeltà, il sadismo, la necrofilia che vengono ben rappresentati sul grande schermo. Ovvio che la censura si accanisce alla grande sia su Mondo cane che su Mondo cane 2alleggerendoli di qualche metro. Va peggio aLa donnanel mondoche viene bocciato in prima istanza e riesce a uscire nelle sale solo grazie ai contatti influenti di Angelo Rizzoli.


Gualtiero Jacopetti non si ferma e insiste sulla linea del documentario con nuovi prodotti come Africa addio, un affresco sui cambiamenti del continente africano in odore di razzismo strisciante e commentato da un testo di indubbio cattivo gusto. Il film si ricorda per alcuni passi che documentano la turbolenta situazione politica africana con fucilazioni e stragi riprese in diretta. Carlo Gregoretti, presente sul posto durante le riprese, accusa Jacopetti di aver partecipato alle azioni militari in Congo e di aver ripreso dal vivo le feroci esecuzioni sommarie. Nuovi guai giudiziari si profilano all’orizzonte del regista e la magistratura italiana apre un procedimento d’ufficio per stabilire la verità. L’accusa è concorso in omicidio e riguarda non solo Jacopetti ma anche il direttore della fotografia Antonio Climati e l’organizzatore generale Stanis Nievo. Il regista si difende querelando Gregoretti e il settimanale L’Espressoche ha pubblicato l’articolo per il reato di diffamazione a mezzo stampa. La battaglia giudiziaria porta incassi al film che è ancora una volta campione al botteghino, pure se la pellicola viene prima definita dalla critica come fascista, razzista, ignobile e poi finisce nelle aule dei tribunali. Se ne occupa persino il parlamento con l’interrogazione del democristiano Salvatore Foderaro, che pone l’accento sull’inopportunità che continui a circolare per le sale italiane un prodotto che reca solo discredito al continente africano. Il Ministro del Turismo e dello Spettacolo, il socialista Achille Corona, nell’agosto del 1966 aTaormina rifiuta addirittura di consegnare un premio assegnato ad Africa addio.


La Rai Tv non manda in onda la telecronaca del premio e non fa parola dell’avvenimento. Si scatena una difesa da destra di Gualtiero Jacopetti contro le angherie  e le censure della televisione di Stato ed è per questo motivo che il regista si costruisce la fama di uomo di destra. Di fatto solo la destra lo accoglie nelle sue riviste e solo la critica di destra elogia i prodotti cinematografici di Jacopetti come “emozioni proibite realizzate con cura estrema e cinica freddezza”.


Jacopetti e Prosperi lavorano a La vita è bella (1968), un quadro della civiltà contemporanea secondo la loro particolare ottica sensazionalista, ma l’opera resta incompiuta e il progetto provvisoriamente abbandonato. Il successivo documentario, Addio zioTom, invece scatena ancora polemiche e porta di nuovo alla ribalta la coppia Jacopetti - Prosperi. Il film viene presentato come un lavoro dalla parte dei negri americani che, morto Martin Luther King, pretendono di avere un loro ruolo nella società. In realtà il documentario parla dello schiavismo in termini quasi elogiativi e nostalgici. Viene idealizzato il rapporto stretto tra  padrone e schiavo e il negro è dipinto come un essere nato per servire il bianco che lo tratta bene e lo considera come un oggetto di sua proprietà. Le accuse di razzismo sono avvalorate anche da un commento sonoro fastidioso che accentua ancora di più il senso di inutilità della pellicola. Jacopetti, Prosperi e Luciano Cirri in questo periodo realizzano anche lo spettacolo di cabaret Occidente, good-by, un’opera satirica che riprende le tematiche di Addio zio Tom.


Nello spettacolo le affermazioni razziste e qualunquiste si sprecano e vanno dai negri che vogliono un’ecatombe bianca, ai contestatori da quattro soldi, per arrivare ai nuovi preti non violenti e ai negri visti come razzisti al cioccolato. Addio zio Tomè girato negli Stati Uniti e ad Haiti utilizzando comparse prese dalla strada messe a disposizione dal dittatore Papa Doc. Il film è indubbiamente di destra e segue il filo conduttore del finto reportage cercando di raccontare l’epopea dei neri d’America secondo l’ottica dei bianchi più razzisti. Il film ha alcune scene di vero e proprio culto per gli esteti del trashcome la sequenza della serva adolescente che vede la sua verginità come un ostacolo alla possibilità di servire i padroni e implora verso la macchina da presa che qualcuno gli “facesse lo servizio” per poter poi tornare dal bianco che l’ha rifiutata. Molto trash anche la scena della castrazione tramite tenaglie di uno schiavo che urla “No i palli no!” e che la folla del suo stesso colore apostrofa, dopo che il malcapitato se l’è fatta sotto per il terrore, “Ha pisciasse, c’ha paura, ha pisciasse!”. Per non parlare della scena della “purificazione anale” tramite clistere dove tutti gli schiavi soffrono per la rozzezza della pratica tranne uno, che sorride beato alla macchina da presa. Pure lo slangcon cui parlano i negri è patetico.


Addio zio Tom esce nel 1971 e viene stroncato un po’ ovunque, questa volta abbastanza giustamente perché si tratta del peggior film di Jacopetti, il più falso e ideologicamente scorretto che abbia mai girato. Pure il pubblico tradisce il regista e diserta le sale anche perché il momento d’oro dei mondo movies sta finendo. Nuovi guai giudiziari per Jacopetti che si vede sequestrare il film dalla magistratura perché “contrario al buon costume e al sentimento etico e sociale per le frequenti scene di volgare sessualità, per la esasperata rappresentazione dell’odio razziale e per le tragiche e sanguinose stragi che la lotta razziale determina nella struttura dello spettacolo”. Il dissequestro di Addio zio Tom avviene poco dopo con una motivazione che lo riconosce come “opera d’arte”, ma sono gli autori che lo ritirano dalle sale e decidono di rimontarlo. Jacopetti e Prosperi pensano che la prima versione è risultata poco chiara agli spettatori e quindi inseriscono un nuovo commento di uno speaker che spiega antefatti storici e dà informazioni utili. Nel 1972 esce una nuova versione del film tagliata di ventotto minuti rispetto alla precedente e intitolata Zio Tom. Questa volta il pubblico risponde abbastanza bene, pure se non si toccano le vette di incassi dei primi mondo movies. L’unica cosa negativa è l’accusa di plagio da parte di uno scrittore francese, plagio relativo solo al titolo e per questo viene comminata una parziale condanna al risarcimento. 


La coppia Prosperi - Jacopetti, dopo il parziale insuccesso di Addio zioTom, riprende in mano il vecchio progetto de Lavita è bella e ne ricavano un film a soggetto al quale collabora anche il giornalista Claudio Quarantotto. Il film esce nel 1975 con il titolo di MondoCandido, perché ispirato al Candido di Voltaire, e passa in rassegna una serie di atrocità commesse dal genere umano che vanno dall’inquisizione alle ingiustizie del nuovo mondo, per arrivare alle guerre civili irlandesi e al conflitto arabo-israeliano. Ma il film si occupa pure della perdita della verginità, dell’innocenza, della fine delle ideologie e della caduta delle illusioni. Il quadro deprimente che ne esce fuori è pessimista e sconcertante, rappresenta una visione del mondo cupa e nichilista che il pubblico non apprezza. Mondo Candido viene punito da critica e botteghino che decretano la fine della carriera di Jacopetti e il definitivo tramonto dei prodotti stile mondo movies.


Gualtiero Jacopetti torna alla ribalta delle cronache alla fine del 1975 quando partecipa a una “Costituente di Destra” insieme a Mario Tedeschi, direttore de Il Borghese,  che si propone alle elezioni per costituire uno schieramento conservatore a destra della Democrazia Cristiana. La costituente raduna uomini di spettacolo come Gianni Manera, Nino Segurini, Gianni Solaro e Gualtiero Jacopetti entra nel Comitato di Presidenza. Il movimento politico ha vita breve e Jacopetti comprende che nell’Italia di fine anni Settanta c’è ben poco spazio a destra di Democrazia Cristiana e che quel poco è ricoperto dal Movimento Sociale Italiano. Il nuovo movimento subisce una bruciante sconfitta nelle elezioni politiche del 1976 proprio per la sua natura neofascista che viene giudicata pericolosa dagli elettori. Il posto della “Costituente  di Destra per la libertà” è preso da Democrazia Nazionale, che si fonde con il Movimento Sociale e vede tra i suoi attivisti Gualtiero Jacopetti. Negli anni Ottanta il regista torna a occuparsi di giornalismo e collabora a Il Giornale dell’amico Montanelli come inviato speciale nelle zone calde del pianeta.


Il cinema di Jacopetti è oggi al centro di una globale rivalutazione e riscoperta. L’inventore del mondo movie, del “documentario scandalistico violento e scioccante, che con immagini di inusitato verismo, crudeli e sadiche, tende  a impressionare lo spettatore rivelandogli aspetti sconosciuti di riti e usanze proprie di numerose popolazioni” (R. Poppi “Dizionario del Cinema Italiano - I registi - Gremese, 1993). Gualtiero Jacopetti passa alla storia del cinema anche con la nome del grande mistificatore perché avrebbe costruito sul set false sequenze documentarie. L’accusa è confortata da testimonianze di suoi collaboratori diretti ma non è stata mai del tutto provata (2).
 
 
Riferimenti bibliografici
 
(1) Per le vicissitudini giudiziarie di Gualtiero Jacopetti si veda: Franco Grattarola – “Il Candido Gualtiero” - da “Il Foglio Letterario” n.21 - Edizioni Il Foglio - Piombino, 2003
 
(2) La figura di Gualtiero Jacopetti è stata ricostruita sulla base del saggio critico di Franco Grattarola sopra citato.

(3) Stefano Loparco - Gualtiero Jacopetti - Graffi sul Mondo - Il Foglio Letterario Edizioni - Piombino, 2013


Il mio cinema, due volte a settimana:
http://www.futuro-europa.it/dossier/cineteca

 

Cinema Italiano Database: CANONE INVERSO (2000)

Muore Aldo Florio

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Il regista Aldo Florio (a sinistra) con l'attore Gerardo Amato davanti al Palazzo del Cinema al Lido di Venezia

Muore Aldo Florio (Sora, 3 gennaio 1925, Roma 18 dicembre 2016) e la notizia mi giunge dallo sceneggiatore e regista Ernesto Gastaldi, comune amico, che aveva sempre avuto con il cineasta ciociaro un rapporto speciale. Ecco le sue parole di commento: “Oggi è morto il bravo regista Aldo Florio.  Grande uomo, un mio amico da 60 anni, l'uomo che al mio arrivo a Roma mi aiutò come fossero stati grandi amici, ma l'avevo incontrato nel 1953 per pochi minuti da Ferrua, in un bar di Biella, mi offrì un Punt & Mes, e , sapendo che avevo intenzione di fare cinema mi diede il suo indirizzo di casa, pensando che non sarei mai venuto a Roma. Invece andai a suonare alla sua porta nel 1955 insieme a Peppo Sacchi, quello avrebbe fatto cadere il monopolio della RAI fondando Telebiella: allora eravamo entrambi ragazzotti senza arte né parte, solo con la voglia di fare cinema. Ci accolse a casa, ci sfamò, ci cerco una stanza e ci trovò lavoro come comparse in Guerra e pace, a Cinecittà, e ci diede una mano per entrare al Centro Sperimentale di Roma. Da allora, 60 anni di amicizia. Ho bevuto un Punt & Mes, come facevamo da 60 anni ogni volta che ci incontravamo. Era il mio ultimo grande amico romano, dopo la scomparsa di due mesi fa di Tonino Valerii. Ho bevuto un  Punt & Mes, l'ultimo, alla memoria. Non resta che piangere”.


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Appunti su Massimo Dallamano

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Massimo Dallamano (1917 - 1976) comincia come operatore di documentari e direttore della fotografia, prima di dedicarsi alla regia con una decina di pellicole abbastanza popolari. Ricordiamo l’erotico Lemalizie di Venere (1969) con Laura Antonelli, il thriller Cosa avete fatto a Solange? (1972), il sexy Innocenza eturbamento(1974) e il poliziottescoLa polizia chiede aiuto (1974). In questo pezzo parliamo di due pellicole ricche di riferimenti horror come Il Dio chiamatoDorian (1970) e Il medaglione insanguinato– Perché?(1975).




Il Dio chiamatoDorian (1970)  

Regia: Massimo Dallamano. Soggetto: Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde. Sceneggiatura: Marcello Coscia, Massimo Dallamano, Günter Ebert. Fotografia: Otello Spilla. Musica: Peppino De Luca, Carlos Pes. Montaggio: Leo Jahn, Nicholas Wentworth. Produzione: Samuel Z. Arkoff, Harry Alan Towers (Italia/ Germania/ Gran Bretagna). Interpreti: Helmut Berger, Herbert Lom, Richard Todd, Marie Liljedahl, Beryl Cunnigham, Margaret Lee, Isa Miranda, Eleonora Rossi Drago, Renato Romano, Stewart Black, Francesco Tens, Stefano Oppedisano, Renzo Marignano.  



Trama: Dorian, un bel giovane ricco e narcisista, ama Sybil, aspirante attrice. Il ragazzo posa per un ritratto che gli sta facendo il suo amico pittore Basil. Quando il ritratto finisce Dorian si rende conto  che lui dovrà invecchiare mentre il quadro resterà immutato nel tempo, ritraendo la sua bellezza. La notte stessa litiga con Sybil e la scaccia. Il mattino successivo scopre che la sua immagina nel ritratto appare leggermente stanca, come invecchiata. Dorian decide di nascondere il quadro e continua la sua vita viziosa, senza risparmiarsi. Invecchierà soltanto la sua immagine…  


La pellicola racconta la storia di Dorian Gray (Berger), ossessionato dalla possibilità di perdere la giovinezza e innamorato del suo ritratto, fino a vendere l’anima al diavolo per far invecchiare al suo posto il dipinto dall’amico pittore Basil (Todd). Dorian è un grande seduttore di uomini e donne, spinge al suicidio il suo unico vero amore che abbandona per un sogno di eterna giovinezza, commette omicidi e alla fine si suicida di fronte al ritratto divenuto mostruoso. Dallamano e Marcello Coscia realizzano la sceneggiatura di un film cupo e morboso, rielaborando Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde, ma in versione più ambigua e aggiornata rispetto al precedente lavoro di Albert Lewin (1945). Il cast è notevole, punta su un bello e maledetto come Helmut Berger, un vero e proprio angelo del male, ma anche su tante bellezze femminili come Marie Liljedahl, Margaret Lee, Beryl Cunningham e Maria Rohm. Non sono da sottovalutare le interpretazioni di Eleonora Rossi Drago e Isa Miranda. Ricordiamo misteriose soggettive iniziali e una suggestiva fotografia londinese, oltre a un’inquietante atmosfera onirica. Margaret Lee è un’affascinante e viziosa nobile che si invaghisce di Dorian, ma nella versione televisiva le concessioni erotiche sono minime, restano a livello di suggestione. Pellicola distrutta dalla censura - come accade al precedente Le malizie di Venere - per il tono cupo e l’erotismo malsano di cui è permeata. Helmut Berger è molto bravo nei panni di un mefistofelico amante assassino che concupisce le prede per poi liberarsene con efferati omicidi. L’attore austriaco è al suo quinto film italiano, dopo aver interpretato Le streghe (1967) e La caduta degli Dei (1970) di Luchino Visconti, ma anche i meno famosi I giovani tigri (1968) di Antonio Leonviola e Sai cosa faceva Stalin alle donne? (1968) di Maurizio Liverani. Il lancio definitivo era stato merito di Visconti e anche per questo motivo i giornali parlavano di una sua presunta ambiguità. Il suo personaggio è quello di un uomo perverso e affascinante, ma a un certo punto la sua vita diventa un incubo e viene assalito dal rimorso di aver perso l’unico vero amore. Il lato horror - misterioso viene sacrificato a vantaggio di una maggior attenzione al versante erotico. L’atmosfera è suggestiva, sia per la musica psichedelica anni Settanta, che per una commistione di temi che vanno dal fantastico - colto a una curata attenzione verso il mondo hippie e borghese del periodo storico. Fotografia anticata e nitida di Otello Spilla. Molto suggestivo l’incipit: “due mani tremanti, sporche di sangue, l’acqua che scorre da un rubinetto e cancella le tracce di un omicidio”. L’operazione estetica di Dallamano è difficile, se non impossibile. Il suo Dorian Gray non ha niente di innocente e di ingenuo, ma è un perverso Helmut Berger che si muove a suo agio nei night londinesi, subisce il fascino di uomini e donne, si lascia trasportare in una spirale di sesso e decadenza senza limiti. Molte le citazioni prese dall’opera di Oscar Wilde che impreziosiscono soggetto e sceneggiatura. Pare che il regista originario avrebbe dovuto essere Jesús Franco, per un film sicuramente nelle sue corde, soprattutto per le molte concessioni all’eros spinto, anche in versione omosessuale. incompiuto.


Il Dio chiamatoDorian è unapellicola sulla solitudine umana, esistenziale, psichedelica, che indaga sui fantasmi del passato e sulle colpe di un uomo che si è macchiato di delitti imperdonabili. La versione integrale del film è reperibile soltanto sul mercato tedesco. In Italia esistono diverse versioni, tutte più o meno tagliate, ma la più completa è uscita in dvd per Raro Video. Nel 2008 è uscita una produzione Minerva Video, facilmente reperibile. Nel 2012 è stata messa in commercio anche la colonna sonora del film, composta da Peppino De Luca e Carlos Pes, distribuita da CAM.


Il film presenta una location molto sfruttata del cinema italiano: Villa Giovannelli a Roma, un vero e proprio luogo comune del nostro cinema. Il Dio chiamato Dorianè il primo film girato in loco, ne seguiranno molti altri, da In nome del popolo italiano (1971) a Ti amo in tutte le lingue del mondo (2005). Molte locationesterne sono londinesi, rappresentano la parte più interessante del film che sfrutta al meglio l’ambientazione inglese. Per approfondire si consiglia di consultare il Davinotti on line.


Rassegna critica. Rudy Salvagnini (Dizionario dei film horror): “Curiosa versione de Il ritratto di Dorian Graydi Oscar Wilde che punta, non senza fondamento, sull’erotismo e sulle depravazioni più che sull’orrore, restando quindi abbastanza in linea con gli intenti del romanzo. L’ambientazione contemporanea e la presenza del bello e maledetto per antonomasia - un Helmut Berger che sembra fatto apposta per il ruolo - rendono il film interessante, anche se l’andamento sin troppo prevedibile non aiuta” (due stelle e mezzo). Paolo Mereghetti: “I tempi non sono ancora maturi per un’operazione di aggiornamento del Dorian Gray classico, il risultato pare affrettato, superficiale, anche se non manca il divertimento pop, specie nell’uso delle attrici più attempate” (una stella e mezzo). Pino Farinotti concede due stelle ma non motiva. Filmscoop: “Il cast fa in pieno il suo dovere, il film è gradevole, si lascia guardare, ma non va oltre il mero esercizio di stile. Colpa di una trama risaputa che si discosta solo per un finale leggermente modificato”. Un film elegante, girato con cura, che concede molto all’exploitation e alla cultura psichedelica del periodo storico, ma non rinuncia a cercare la sua strada come pellicola d’autore. 


Il medaglione insanguinato – Perché? (1975) è interpretato da Richard Johnson, Joanna Cassidy, Nicoletta Elmi, Ida Galli, Edmund Purdom, Riccardo Garrone, Dana Ghia e Lila Kedrova. La storia narra le vicende di un regista inglese vedovo (Johnson) che sta girando un documentario sull’arte demoniaca, mentre la figlia (Elmi) viene catturata dalle forze maligne sprigionate da una pittura maledetta. La chiave del mistero sembra nascosta in un medaglione che il regista aveva regalato alla moglie e che adesso la bambina tiene con sé. La pellicola è ben diretta, ambientata nelle campagne umbre con gusto e suggestioni da horror edipico - satanico che rimandano con frequenza a L’esorcista (1973) di William Friedckin. Gli sceneggiatori sono Franco Marotta e Laura Toscano, oggi valenti autori di fiction televisiva. La fotografia è di Franco Delli Colli, mentre le ottime musiche sono di Stelvio Cipriani. Il film gode di una ben precisa originalità ed è caratterizzato da pregevoli parti oniriche che vedono protagonista Nicoletta Elmi (Emily). La piccola attrice è molto brava a tratteggiare il personaggio di una ragazzina innamorata del padre al punto di arrivare a uccidere tutte le compagne della sua vita. La pellicola si svolge tra Londra e Spoleto, ma è la cittadina umbra il luogo dell’orrore, tra vicoli stretti, antiche chiese cadenti e campagne nebbiose. La madre di Emily è morta bruciata, ma solo nel finale la bambina si rende conto che è stata lei a ucciderla, spinta dall’amore morboso per il padre. Il terribile abbraccio terminale tra Emily e il padre viene suggellato dalle parole: “Solo così potremo stare sempre insieme”. Una spada trafigge i due cuori in una stretta mortale. Un horror edipico in piena regola, cupo e disperato, inquietante e malinconico, che la stupenda colonna sonora di Stelvio Cipriani rende ancora più suggestivo. 


Il mio cinema, due volte a settimana, su Futuro Europa:
http://www.futuro-europa.it/dossier/cineteca

Fuoco e fumo (2017)

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di Stefano Simone

Titolo: Fuoco e fumo. Origine: Italia. Anno: 2017. Durata: 86’. Genere: Noir. Produzione: Indiemovie con la collaborazione dell’ I.T.E. Toniolo di Manfredonia. Regia: Stefano Simone. Interpreti: Gianmarco Carbone, Désirée Manzella, Michele Renzullo, Antonio Rignanese, Marco Trotta, Luca Nobile, Melissa Salvemini, Enzo Misuriello, Luca Ferrandino, Giorgia Croce, Luca Ciuffreda, Matteo Perillo, Filippo Totaro, Siponta De Leo, Ciro Salvemini, Pellegrino Iannelli. Soggetto e Sceneggiatura: Matteo Simone. Consulenza alla sceneggiatura: Simone Giusti e Gordiano Lupi. Musiche: Luca Auriemma. Effetti speciali: Mariangela Spagnuolo. Fonico: Daniel Leporace. Aiuto regista: Marco Caputo.




Stefano Simone si confronta con il bullismo giovanile, tema impegnativo e di grande attualità, ma a rischio retorica per un film e difficile da ingabbiare nelle maglie di una storia che risente del suo limite di produzione scolastica. Il titolo del filmè estrapolato da un aforisma di Disraeli: il coraggio è fuoco e il bullismo è fumo, senza dimenticare che è il fuoco che ci riscalda e non il suo fumo (T. Merton). L’ambientazione è pugliese, a Manfredonia, tra scuola, centro storico, lungomare e periferia degradata, ripresa con stile pasoliniano. Gli interpreti sono quasi tutti dilettanti, in gran parte studenti dell’Istituto Tecnico Toniolo, ma se la cavano bene, vista la giovane età e l’assoluta mancanza di esperienza. Alcuni ruoli adulti spiccano per una maggiore professionalità, soprattutto Filippo Totaro, nella fiction docente di matematica, che ricordiamo brillante coprotagonista de Gli scacchi della vita.


La sceneggiatura racconta un anno scolastico difficile, inaugurato da un discorso del preside e da una successivo preambolo del professore (entrambi troppo lunghi e didascalici nell’economia del film), per poi entrare nel vivo della storia. In breve la trama, senza raccontare troppi dettagli per non rovinare il piacere della visione. Un gruppo di bulli tormenta un ragazzino omosessuale e una coppia etero, tra loro molto amici, fino al prevedibile evento drammatico che fa scoppiare il caso giudiziario in ambiente scolastico. Il protagonista della storia trova il coraggio di ribellarsi ai bulli in una sequenza che anticipa un ottimo finale, non certo rassicurante ma realistico, con nuovi bulli all’orizzonte e altri pericoli dai quali difendersi. La lotta è ancora lunga…


Stefano Simone stigmatizza la violenza e il bullismo all’interno della società contemporanea, impostando un condivisibile discorso sociale, che comprende l’accettazione della diversità e la lotta per affermare valori basilari per un corretto vivere civile. Certo, sarebbe stata una scelta migliore far scaturire le considerazioni dagli eventi, dai fatti, dalle azioni. Il film, invece, opta per un racconto piano e lineare, a base di dialoghi tra ragazzi, spesso non realistici, lontani mille miglia dal vero gergo giovanile. La sceneggiatura è prevedibile, ma alcuni colpi di scena riescono a ravvivarla, così come le parti di pura azione rappresentano i momenti migliori del film: inseguimenti, pestaggi e scorribande notturne dei bulli che sfasciano negozi, tormentano prostitute e rubano in chiesa. Ottima la fotografia notturna, dal verde al giallo ocra che tanto ricorda il noir di Sollima, per passare al tono di fondo luminoso e gelido che immortala un cielo plumbeo e un mare poco rassicurante.

Bene le riprese in soggettiva, convulse e dinamiche, realizzate con la macchina a mano, rese ancora più potenti da un montaggio rapido e sincopato. Il regista avrebbe dovuto puntare di più sulle parti di pura azione, per le quali pare molto dotato, sulle sequenze da noir metropolitano, riducendo al minimo i dialoghi tra adolescenti e gli interventi narrativi degli adulti, che stonano nel contesto giovanile. Musica sintetica in perfetta sintonia con le sequenze più dure e riuscite, che riesce a drammatizzare bene gli eventi narrati, rendendoli più intensi e angosciosi. Interessante l’uso del flashback e dei ricordi onirici, soprattutto per costruire il personaggio del ragazzino omosessuale e per giustificare il suicidio dopo una terribile sequenza di pestaggio resa con crudo realismo. Simone cita il cinema western con la sfida finale tra il protagonista e i bulli, sotto il sole di una periferia degradata, realizzando un mix ben strutturato che ricorda analoghe rese dei conti che abbiamo apprezzato nel cinema nero di Fernando di Leo.
Fuoco e fumoè cinema realistico, a metà strada tra il noir metropolitano e il romanzo di formazione. Difficile paragonarlo ai lavori precedenti di Stefano Simone, perché rispetto a Gli scacchi della vita- puro cinema fantastico - siamo su un piano narrativo del tutto diverso. Si apprezza lo stile del regista, nota positiva che delinea una certa continuità narrativa e una crescita da un punto di vista tecnico, ma si nota pure la mancanza di una solida sceneggiatura che avrebbe dato più forza alla pellicola. Un lavoro apprezzabile, interessante a livello sociale, un passo in avanti per il regista che si confronta con una complessa direzione degli attori e riesce a far recitare in maniera sufficiente un gruppo di giovani interpreti privi di esperienza. Restiamo in attesa di vedere Stefano Simone all’opera con un vero noir metropolitano, scritto senza fronzoli e dialoghi, cucito su misura per mettere in evidenza le sue doti narrative.


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Bordella (1976)

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di Pupi Avati



Soggetto: Antonio Avati, Gianni Cavina, Pupi Avati. Sceneggiatura: Pupi Avati, Antonio Avati, Gianni Cavina, Maurizio Costanzo. Fotografia: Enrico Menczer (Technospes, Cosmovision, Ece). montaggio: Amedeo Salfa. Supervisione al Montaggio: Ruggero Mastroianni. Costumi: Maria Baroni. Trucco: Giovanni Amadei. Maestro d’Armi: Enzo Musumeci Greco. Coreografie: Tito Leduc. Scenografia: Guido Josia. Aiuto Regista: Riccardo Tognazzi, Guido Girolami. Operatore alla Macchina: Roberto Brega, Rosario Maria Montesanti.Fonico: Mario Dallimonti. Fotografo di Scena: Francesco Bellomo. Effetti Speciali: Giovanni Corridori. Sincronizzazione: Fono Roma srl, CVD. Mixage: Venanzio Braschi. Musiche: Amedeo Tommasi (Eurofilmusic Edizioni Musicali srl). Canzoni: I’m free, The morning of mylife, American love company di A. Tommasi e M. Gore;  Manhattan di Rogers e Hart; Comme facette mammeta di G. Cataldo e S. Sgambardella. Produttore: Gianni Minervini, Antonio Avati. Casa di Produzione: Euro International Films. Genere: Commedia grottesca, Musical. Durata: 100’. Dedicato ad Al Lettieri. Interpreti: Al Lettieri, Christian De Sica, Gianni Cavina, Luigi Proietti, Taryn Power, Vladek Sheybal, Luigi Montefiori, Maurizio Bonuglia, Rosemarie Lindt, Greta Vaillant, Giselda Castrini, Alida Cappellini, Marcello Casco, Paolo Graldi, Ferdinando Orlandi, Pietro Brambilla, Valentino Macchi, Maria Rosa La Fauci, Tiziana Redini, Enea Ferrario, Michele Mirabella, Francesco D’Adda, Cesare Bastelli, Diana Salvador, Elvira Cortese, Vincent Gardenia, Gianfranco Principi, Maria Teresa Piaggio, Rosamaria Calogero, Giancarlo Muratori, Vittorio Moroni, Cesare Di Vito, Luciano Crovato, Giuseppe Terranova, Anna Recchimuzzi, Jho Jhenkins, Elisa Mainardi.


Bordellaè un film curioso, grottesco, surreale, del tutto non classificabile ricorrendo alle ordinarie categorie della critica cinematografica. Musical geniale condito di trovate assurde che fungono da tormentone (la cassa da morto che deve scendere le scale di un condominio, il bancario ladro…) e con un sua morale anticonsumistica e in fondo anche un po’ antiamericana. Si parte con un finto telegiornale che mostra vere immagini di Kissinger - e in seguito pure Nixon - doppiati con una voce fuori campo che presenta il progetto di spacciare felicità. Gli USA decidono che è il momento di impostare un affare economico globale basato su droga, sesso e tutto quello che - lecito o illecito - possa procurare felicità e guadagno. Un italo americano, Eddie Mordace (Al Lettieri) viene incaricato dal governo statunitense di aprire una succursale milanese della American Love Company, una casa di tolleranza per donne insoddisfatte, un bordello al femminile, in pratica. Mordace recluta un cameriere gay, un gigantesco playboy (Montefiori), un pugile impotente (Cavina), un nobile (De Sica) e un maniaco sessuale (Proietti) per impostare il lavoro e soddisfare la ricca clientela.


Ne viene fuori un film ricco di gag e trovate fumettistiche, ai limiti del grottesco, persino eccessive, tra flashback assurdi e intere parti coreografico - musicali che fanno pensare a un musical. Avati inserisce nel film tutto il suo amore per il cinema e per la musica, tra brani jazz, note americane anni Cinquanta e brani classici italiani ben mixati da Amedeo Tommasi. Tra i flashback memorabile quello con protagonista Cavina nei panni del pugile suonato che viene truccato da spagnolo e da africano ma finisce sempre per buscarle di santa ragione. Interpreti azzeccati anche negli altri ruoli, sia Montefiori come amante instancabile, che Proietti come assatanato stupratore di donne, persino un giovanissimo De Sica, lezioso maestro di buone maniere aristocratiche.


Per le parti da musical Proietti e De Sica sono perfetti, mostrano tutta la loro bravura ancora in nuce ma che con il tempo riusciranno a sviluppare. La trama procede tra finte paralitiche che si trasformano in ninfomani, comici duelli all’arma bianca, citazioni esplicite de L’uomo invisibile, coreografie fantastiche di Tito Leduc (lo vediamo in un piccolo ruolo), suicidi mancati per colpa di profilattici troppo resistenti, intermezzi erotici da Carosello, una mormone che contesta il sesso, festini americani con premiazione finale degli erotici eroi. Straordinario il finale con Mr. Chips, l’imprenditore americano (Gardenia), che chiede al misterioso uomo fasciato da capo a piedi: “Ma lei chi cazzo è?. Risposta: “Io? L’uomo invisibile!”. Avati ci mette un pizzico di fantastico, fa sciogliere le bende e mostra l’uomo invisibile che scompare all’orizzonte.


Bordellaebbe problemi con la censura, ma a nostro parere fu sequestrato non tanto per oltraggio al pudore quanto per il pericoloso messaggio anticonsumistico e antiamericano che stava alla base della pellicola. Girato tra New York e Milano, una produzione economicamente costosa che non recupera le spese, visto lo scarso successo di pubblico. Troppo avanti rispetto ai tempi, perché rivisto oggi Bordellaè un film moderno e godibile, ricco di un umorismo per niente invecchiato. Tra gli sceneggiatori ricordiamo la presenza di Maurizio Costanzo, insieme ai fratelli Avati e Gianni Cavina che - come nella Mazurka - si ritaglia un ruolo che gli calza a pennello. Bordellaè dedicato ad Al Lettieri (New York, 1928 - 1975), il mitico Sollozzo de Il padrino, qui doppiato da Carlo Giuffrè nel ruolo principale, che muore per un infarto al miocardio poco prima dell’uscita della pellicola.


La critica. Marco Giusti (Stracult): “Il film più curioso di Avati. Non mantiene nella messa in scena la curiosità dell’idea iniziale, è comunque un buffo, anomalo esperimento”. Giusti sostiene che la filiale italiana dell’industria del sesso al femminile viene chiamata Bordella, ma non è vero, resta American Love Company. E in realtà la messa in scena è persino superiore all’idea iniziale, tra trovate eccessive, battute surreali, suntuose parti coreografiche e canzoni. Paolo Mereghetti (due stelle): “Surreale apologo contro il consumismo e il cinismo politico, il film offre una carrellata di caratteri eccentrici e divertenti, ma non riesce a liberarsi di un macchiettismo un po’ gratuito”. I critici veri dovrebbero spiegare a noi spettatori comuni appassionati di cinema cosa intendono per macchiettismo, perché nel film abbiamo visto solo trovate geniali.  Morando Morandini (due stelle e mezzo - tre per il pubblico): “Satira intelligente, originale e un po’ folle, diretta da un Avati che mostra ancora una volta un talento esile ma vero e, comunque, personale”. Non concordiamo sulla definizione di esile riguardo al talento, ma per il resto ci siamo. Pino Farinotti porta il giudizio a tre stelle, che condividiamo, ma lo fa senza motivare. 



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Regalo di Natale (1986)

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di Pupi Avati 




Regia, Soggetto, Sceneggiatura: Pupi Avati. Produttore: Antonio Avati. Fotografia: Pasquale Rachini. Montaggio: Amedeo Salfa. Collaboratori al Montaggio: Luciano Nusca, Roberto Gianadrea, Maria Gianandrea. Musiche: Riz Ortolani. Scenografia: Giuseppe Pirrotta, Mauro Venturini, Rita Celletti. Costumi: Maria Teresa Venturini, Raffaele Curi. Trucco: Alfonso Cioffi. Suono in Presa Diretta: Raffaele De Luca. Assistente alla Regia: Piermaria Benfatti, Salvatore Marcarelli. Casa di Produzione: Duea Film, DMW Distribuzione, Rai Uno. Distribuzione: Sacis. Durata: 101’. Genere: Drammatico. Interpreti: Carlo Delle Piane (Avvocato Santelia), Diego Abatantuono, Gianni Cavina (Ugo), Alessandro Haber (Lele), George Eastman (Luigi Montefiori) (Stefano), Kristina Sevieri (Martina), Gianna Piaz (Adriana), Ferdinando Orlandi. Premi: Coppa Volpi a Carlo Delle Piane quale Miglior Attore alla XLIII Mostra Cinematografica di Venezia. David di Donatello: Miglior Canzone Originale (Regalo di Natale, di Riz Ortolani), Miglior Suono (Raffaele De Luca). Nastro D’Argento Miglior Attore Non Protagonista (Diego Abatantuono).

Una trama semplice per un progetto a basso budget, dopo il parziale flop di pubblico - ma non di critica - con Noitre e Impiegati, Avati si trova a dover fare i conti con l’esigenza di scrivere una piccola storia, girata in interni e interpretata da cinque attori. Un successo, anche perché il cast viene scelto con cura e gli interpreti sono perfetti per i ruoli, soprattutto Delle Piane e Abatantuono, premiati con riconoscimenti prestigiosi. In breve la trama. Quattro amici - Lele (Haber), Ugo (Cavina), Stefano (Eastman) e Franco (Abatantuono) - si ritrovano la notte di Natale per giocare una partita a poker insieme a un misterioso avvocato (Delle Piane) di Milano, noto nell’ambiente per essere uno che perde. Ugo ha contattato l’avvocato e subito dopo ha convinto il vecchio amico Franco a giocare, perché soltanto lui è ricco e può controbattere il gioco al rilancio del ricco avvocato. Il rapporto tra Franco e Ugo è uno dei temi centrali del film, perché tra i due l’amicizia non esiste più da quando il secondo ha tradito la fiducia del primo portandosi a letto la donna della sua vita.

Franco si convince a giocare solo perché potrebbe vincere facilmente e con quei soldi riuscirebbe ad avviare la ristrutturazione del cinema di cui è proprietario. Il film procede con immagini della partita, brevi pause per mangiare, dialoghi e intensi flashback che narrano la storia tra Ugo, Franco e Martina (Sevieri), causa della fine di un’amicizia. La partita comincia bene per Franco, poi l’avvocato si riprende e quello che sembrava uno sconfitto predestinato vince alla grande, offrendo pure la possibilità a Franco di andarsene e di lasciare il tavolo senza perdite. Franco non accetta e perde tutto, ma alla fine capisce che ha giocato contro un professionista e che Ugo gli ha giocato un altro brutto scherzo, spartendosi la vincita con l’avvocato.


Personaggi ben caratterizzati e storia sceneggiata a dovere, sono i punti di forza di un film che ha avuto anche un sequel meno riuscito nel 2004, interpretato dagli stessi attori: La rivincita di Natale. Ottimo montaggio di sequenze tra partita e flashback, con la visione di Martina, la donna che ha provocato la lite con Ugo e di cui Franco è ancora innamorato che apre e chiude la storia. Nelle prime sequenze è l’avvocato a osservarla, tentando un approccio impacciato dopo che lei ha salutato il marito e attende l’amante. A metà della storia incontra Lele, forse pure lui segretamente innamorato di lei, infine sarà Franco - reduce dalla sconfitta - a non vederla, anche se entrando in camera con l’amante lo sfiora nel corridoio dell’albergo. Martina è presente nei brevi flashback che narrano amore e tradimento, ben fotografati da Rachini in una luce soffusa, che tende al bianco, per sottolineare il ricordo. I quattro amici sono personaggi  a tutto tondo, non macchiette caricaturali, ma esseri umani veri pieni di difetti, ai quali lo spettatore si affeziona.

Lele è il giornalista imbranato che nessuno considera, con velleità da scrittore, innamorato di John Ford al punto che ha scritto un libro su di lui. Ugo è un fallito che vive facendo televendite in una televisione locale, separato dalla moglie che ha lasciato con un sacco di figli e che non vuol vedere neppure per Natale. Franco è un imprenditore di cinema ma in realtà ha un sacco di debiti e il vizio del gioco, oltre ad aver sposato una donna che non ama, visto che pensa ancora al primo amore. Stefano è il proprietario di una palestra frequentata da gay, pure lui in odore di omosessualità, forse il personaggio meno approfondito. L’avvocato Santelia è il mistero fatto persona, ha avuto due mogli, vive con il vecchio padre, ama le belle donne e sembra un giocatore sprovveduto, ma è tutta finzione, in realtà è un professionista del poker. Avati sceglie subito come interpreti Delle Piane e Cavina, Haber invece si propone da solo ma convince il regista dopo un colloquio che assume toni eccessivi, perfetto per il ruolo che avrebbe dovuto interpretare.

Montefiori viene preso in sostituzione dell’attore Jean-Pierre Léaud che appena arrivato a Roma si mette nei guai con la giustizia ed è costretto a rinunciare alla parte. Abatantuono è una seconda scelta, perché Avati in un primo tempo pensa a Lino Banfi, che rifiuta per fare I pompiericon Neri Perenti. Per l’attore milanese comincia una seconda vita artistica ed è l’inizio di una serie di interpretazioni drammatiche, guidato da registi del calibro di Comencini, Bertolucci, Salvatores, oltre allo stesso Avati che lo inserisce nella sua factory e lo vuole con sé per altre operazioni interessanti. Il merito di aver fatto risorgere un Abatantuono in crisi, affrancandolo dal cliché del terruncielloè di Avati, visto che i suoi ultimi film risalivano a quattro anni prima ed erano Attila flagello di Dio e Il ras del quartiere.

Regalo di Nataleè un film molto teatrale, tutto girato in interni, con intensi primi piani sui volti e le espressioni dei giocatori, giocato sui rapporti tra gli amici e il ricordo del passato. “I protagonisti sono i ragazzi di Jazz Band che invecchiando hanno perduto le illusioni e si trovano a tirare avanti in una vita troppo diversa da quella che si attendevano”, ha detto Avati. Il poker diventa metafora della vita e la partita serve per raccontare il passato e i ricordi perduti, soprattutto un grande amore finito nel nulla e un’amicizia svanita. Colonna sonora di Riz Ortolani suadente e drammatica, perfetta per creare tensione e per scandire i momenti della partita, così come assume toni romantici nei frequenti flashback. La canzone inedita della sigla viene premiata con il Nastro d’Argento.



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Anton Giulio Majano, lo sceneggiato RAI

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Mario Gerosa
Anton Giulio Majano – Il regista dei due mondi
Falsopiano – Pag. 300 – Euro 20

Sono molti i personaggi del mondo cinematografico e televisivo che ancora attendono una rivisitazione storico - critica, ma uno davvero importante e dimenticato era Anton Giulio Majano, autore colto e brillante che tanto ha contribuito a diffondere l’uso della televisione nelle nostre case e che ha fatto conoscere - più di tanti polverosi accademici - la letteratura al nostro popolo. Bene ha fatto Mario Gerosa - che conosciamo per aver letto e apprezzato i forbiti saggi su Terence Young, Roger Vadim, James Bond, Ernest B. Schoedsack -, a riportare l’attenzione sul re deglisceneggiati, un uomo che dai contemporanei veniva disprezzato e definito in maniera irridente come autore delle solite majanate. Per fortuna certi critici dallo sguardo miope sono morti dimenticati, mentre l’autore delle majanate - che hanno contribuito ad alfabetizzare l’Italia - oggi viene celebrato come autore meritevole di essere studiato e  analizzato con attenzione certosina. Ecco, il libro di Gerosa, se mai qualcuno pensasse di organizzare un seminario su Majano o un corso di specializzazione sullo sceneggiato in Italia all’interno di una scuola di cinema, sarebbe un testo perfetto.  Perché c’è proprio tutto. Il cinema vede Majano regista di un pugno di pellicole, tra queste spicca la mia preferita Seddok (l’erede di Satana) del 1960, di cui ho parlato nella Storia del cinema horror italiano, volume uno. La televisione è il mezzo per eccellenza con cui si esprime Majano, dal 1954 al 1986, regalandoci opere indimenticabili come Piccole donne, Capitan Fracassa, L’isola del tesoro, Delitto e castigo, La cittadella, Il tenente Sheridan (riprendendo la serie ufficiale di Mario Landi - un altro grande! - per il primo spin-offa tema donne), Davide Copperfield, La fiera delle vanità, La freccia nera (il lancio di Loretta Goggi!), … E le stelle stanno a guardare, Marco Visconti, Castigo, fino al canto del cigno con l’onirico Strada senza uscita. Se la televisione ha fatto cultura lo dobbiamo anche a lui, in tempi cupi come i nostri che tanto fanno sentire la mancanza di simili intelligenze - forse ci è rimasto soltanto Pupi Avati - capaci di usare parole che sembrano antitetiche (ma non lo sono!) come genere e cultura, popolare e letterario. Majano ha lavorato con grandi attori come Alberto Lupo (il medico della Cittadella), Orso Maria Guerrini, Anna Maria Guarnieri, Eleonora Giorgi, Mario Maranzana, Lea Padovani, Grazia Maria Spina, Ubaldo Lay, Giuliana Loyodice, Mita Medici, Roberto Chevalier, Marcello Giannini, Ilaria Occhini, Giuseppe Pambieri …  l’elenco sarebbe interminabile. Collaboratori fidati come Riz Ortolani e Sandro Tuminelli, sceneggiature rigorose e rispettose dell’apparato letterario, hanno contribuito a fare cultura nelle case di un’Italia da ricostruire. Non è azzardato affermare che molti italiani conoscono Dostoevskij, Dickens, Stevenson e Cronin (per tacer degli altri) soltanto grazie ai suoi sceneggiati. Non è mica poco. Il solo difetto del libro di Gerosa è il prezzo - ma non è colpa dell’autore - perché 20 euro per trecento pagine stampate su carta bianca uso mano e copertina flessibile senza risvolti è troppo. La colpa è di un’Italia che legge poco e gli editori commerciali devono pur difendersi con basse tirature e alti prezzi, se vogliono sopravvivere.


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Ciak, si spara

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Nico Parente è un saggista cinematografico che conosco molto bene per aver pubblicato - con Il Foglio Letterario - L’esorcista e Mare blu morte bianca, due opere agili e informative, la prima sul famoso film di William Friedkin, la seconda sul fenomeno del cinema degli squali, apocrifi italiani compresi. Non solo. Parente è stato indispensabile anche per completare la corposa Storia del Cinema Horror Italiano in cinque volumi, perché il suo contributo alla parte sui giovani cineasti italiani (quinto volume) è fondamentale. Adesso lo scopro alla corte di Nicola Pesce, giovane e valente editore che fa cose egregie nel campo del fumetto (Jacovitti, Battaglia, Matteucci e chi più ne ha più ne metta) ma che non conoscevo come cultore di cinema. La prefazione è niente meno che del mio amico perduto Fabio Giovannini - perduto nel senso proustianodel termine, sono anni che non lo vedo e che non lo sento - vero esperto del cinema italiano (e non solo!), un autore dal quale tutti noi piccoli autori abbiamo imparato qualcosa. Il libro parte in quarta con la materia viva, da Romanzo criminale a Gomorra e Suburra, analizzando – come dice il sottotitolo - il crimine italiano sul grande e piccolo schermo. Vi confesso di non nutrire alcuna passione per Gomorra (il pessimo non romanzo di Saviano o la serie televisiva di Garrone non fa differenza), ancor meno per il pasticciato Suburra, ma di amare visceralmente il cinema di Caligari e il suo canto del cigno Nonessere cattivo. Purtroppo Parente non ne parla, ma mi consolo con la Uno Bianca di Michele Soavi, passato in TV ai tempi dei veri sceneggiati, di cui sono stato un fan sfegatato. In ogni caso Parente ci conferma che i generi - come ai tempi del noir alla di Leo e del poliziottesco - siano cinematografici, politici o letterari, possono aiutare a riflettere sulla politica, sulla realtà, sulle condizioni sociali di un’epoca. E anche se in merito a Gomorra chi scrive ha un pensiero diametralmente opposto a quello di Parente, ritengo utile una pubblicazione che affronta temi e problemi messi in evidenza da Uno Bianca, Romanzo Criminale (film e serie), Gomorra (idem), Vallanzasca, Faccia d’angelo e Suburra. Edizione spartana, con il merito di un costo abbordabile, a imitazione Newton & Compton (mica c’è niente di male), molte foto in bianco e nero, un’intervista finale a Stefano Sollima. Un libro commerciale, visti i tempi, ma corretto. (Gordiano Lupi)


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Pasta e cinema sul TIRRENO

Porcile (1968)

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di Pier Paolo Pasolini 




Porcileè un film ancora più scomodo di Teorema - sempre sotto sequestro quando cominciano le riprese del nuovo lavoro - perché non si limita a un attacco antiborghese che proviene da un elemento esterno, ma descrive l'implosione della borghesia, la deflagrazione messa in atto dai suoi stessi membri, dai suoi figli ribelli e trasgressivi. Un film girato in economia, in poco più di un mese, ma forse il lavoro più lucido ed emblematico di tutta l’opera pasoliniana. Tratto da una tragedia in versi dello stesso autore, si compone di due episodi apparentemente diversi tra loro, ma uniti da una stessa valenza metaforica. Il primo episodio non fa parte dell'opera teatrale, viene girato nella Valle dell'Etna, ed è la storia di un cannibale (Clementi) che prima uccide il padre poi si spinge a vagare nel deserto, dove continua a mietere vittime, fa proseliti e si ciba di carne umana. Di fronte al patibolo non si pente. Tutt’altro: “Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, ma tremo di gioia”. Il secondo episodio racconta la storia di una famiglia borghese tedesca, il padre (Lionello) è un ricco imprenditore che si alleano con un altro capitalista (Tognazzi), ex criminale nazista, che conosce l'orribile e inconfessabile segreto del figlio: il suo unico amore sono i maiali.


Puro cinema di poesia, come dice Pasolini, pellicola dove ogni gesto è metafora, allegoria pura, ciò che conta non è la storia ma il significato e il significante. Un lavoro a tema, intellettualmente complesso, filosofico quanto grottesco, soffuso di straordinaria bellezza lirica, come nella sequenza del monologo di Julian (il figlio del borghese interpretato da Léaud), che parla del suo amore proibito senza citarlo. Il significato di Porcile sta tutto nella trasgressione, nella dimostrazione dell'assunto che i santi e i diversi, i non ortodossi, i disubbidienti, non fanno la storia, ma la subiscono, agiscono per sé, nella loro diversità, fino a morire vittime del loro non essere conformi, mai in linea con la massa. Sia il cannibale che il ragazzo muoiono sbranati ma in fondo felici nella loro lucida follia, perché hanno raggiunto quello che volevano: l'autodistruzione, unica via possibile in una società che ammette solo uniformità, devozione e obbedienza.


Viene da pensare, oggi, che Pasolini parlasse di se stesso, in questo apologo pervaso da un pessimismo cosmico e da una totale impossibilità di redenzione. Porcileè un film visionario che usa strumenti tipici della cinematografia di genere per esibire l'orrore, dimostrando che trasgredire non basta, non è sufficiente uccidere il padre - come Edipo - e ribellarsi, se la ribellione individuale non serve agli altri, non coinvolge la massa, se resta un atto di puro narcisismo.  Grandi interpreti per un film che tradisce la sua origine e vocazione teatrale, tra tutti Lionello e Tognazzi, nei panni di due laidi borghesi, soprattutto il secondo che resta impresso nell’immaginario grazie a un’inquietante sequenza finale.  Ferreri presta il suo volto a un’interpretazione abbastanza insolita nei anni di un amico di famiglia dell’imprenditore. Davoli è la purezza, il candore, l’ingenuità da ragazzino che porta un soffio di bontà e disperanza in un panorama gretto e arido.


Porcile esce con il consueto divieto ai minori riservato per i film di Pasolini,  viene distrutto dalla critica di destra ma anche da quella sinistra perbenista che non ha mai capito il nostro più grande intellettuale del Novecento. Pasolini si vendica organizzando una prima del film alternativa alla Mostra di Venezia, mostrandolo a pochi intimi, a Grado, dove sta girando Medea. Porcileè un film maturo e consapevole anche da un punto di vista tecnico, dotato di una fotografia originale, parti riprese con la macchina a mano, campi e controcampi teatrali, direzione degli attori discreta e senza intromissioni, montaggio parallelo delle due vicende, uso del silenzio (il primo episodio è quasi del tutto muto) in funzione poetica, paesaggi e campi lunghi superbi. Un film da rivedere, da studiare con attenzione per capire che esiste – ma non è dei nostri tempi - il buon cinema di progetto.



Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto e Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Armando Nannuzzi (primo ep.), Tonino Delli Colli, Giuseppe Ruzzolini (secondo ep.). Costumi: Danilo Donati. Musica: Benedetto Ghiglia. Montaggio: Nino Baragli. Aiuti Regista: Sergio Citti, Fabio Garriba. Assistente ala regia. Sergio Elia. Produzione primo ep.: Giani Barcelloni Corte, BBG cin. srl. Produzione secodno ep.: Gian Vittorio Baldi, IDI Cinematografica (Roma), I Film dell'Orso, CAPAC Filmédis (Paris). Pellicola: Kodak. Colore: Eastmancolor. Esterni primo ep.: Valle dell'Etna (Catania), Roma. Secondo ep.: Verona, Stra, Villa Pisani. Durata: 98'. Prima ufficiale: Festival di Venezia, 30 agosto 1969.  Intrerpreti: Primo episodio - Pierre Clementi, Franco Citti, Luigi Barbini, Ninetto Davoli, Sergio Elia. Secondo episodio - Jean-Pierre Léaud, Alberto Lionello, Margherita Lozano (doppiata da Laura Betti), Anne Wiazemsky, Ugo Tognazzi, Marco Ferreri (doppiato da Mario Missiroli).



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Parte IL FOGLIO CINEMA!

Pasta e cinema in Coop

Una vampata d’amore (1953)

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di Ingmar Bergman

Regia: Ingmar Bergman.Soggetto e Sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist, Hilding Bladh. Montaggio: Carl - Olov Skeppstedt. Musiche: Karl-Birger Blomdahl. suono: Olle Jacobsson. Costumista: Mago. Direttore di Scena: Crals Ove Carlberg.  Produttore. Rune Waldekranz. Produzione: Sandrewproduktion. Distribuzione: Sandrew Bauman Film. Distribuzione Italiana: Globe Film International. Origine: Svezia (1953). Durata. 92’. Fotografia. b/n. Titolo originale: Gycklarnas afton (La serata dei buffoni). Distribuito in Italia: 1959. Riedizione Televisiva: 1975. Interpreti: Čke Grönenberg (Albert), Harriet Andersson (Anne), Hasse Ekman (Frans), Anders Ek (Teodor), Gudrun Brost (Alma), Annika Tretow (Agda), Erik Strandmark (Jens), Gunnar Björnstrand (Sjuberg), Curt Löwgren (Blom), Čke Fridell (ufficiale), Kiki (il nano), Majken Torkeli (signora Ekberg), Vanjek Hedberg (suo figlio), Curt Löwgren (Blom), Conrad Gyllenhammar (Fager), Mona Sylwan (signora Fager), Hanny Schedin (zia Asta), Michael Fant (Anton), Naemi Briese (signora Meijer), Lissi Alandh, Karl-Axel Forssberg. Olav Riégo, John Starck, Erna Groth, Agda Helin, july Bernby, Göran Lundquist, Mats Hĉdell.

Una vampata d’amore - meglio sarebbe stato lasciare il titolo originale La serata dei buffoni - non è tra i film più noti e celebrati di Ingmar Bergman, contemporaneo a un capolavoro come Monica e il desiderio resta un po’ in ombra, ma la critica francese lo giudica una delle opere nere più riuscite del Maestro svedese. Bene hanno fatto la Ripley’s Film e Viggo srl a riportare sul mercato il DVD di un’opera che in Italia non si apprezzava dalla edizione televisiva del 1975, successiva a quella cinematografica del 1959, visto che da noi Bergman è arrivato con sei anni di ritardo rispetto alla patria di origine. Un DVD realizzato da un master HD CAM in versione originale, fornito dal distributore internazionale NON STOP SALES AB, prezioso e  imperdibile per un collezionista delle opere del regista svedese. La colonna italiana, non essendo più reperibile il negativo colonna, è stata masterizzata e sottoposta a pulizia digitale, a partire da un positivo di 35mm d’epoca stampato dalla Globe Film International per la prima distribuzione italiana del 1959. Non ci sono Extra, questo è il solo limite di un’importante operazione culturale.
Bergman scrive, sceneggia e dirige la storia di Albert (Grönenberg), il direttore di un circo, stanco di tutto, persino del suo lavoro, separato dalla moglie - che rimpiange non per amore ma per la vita borghese - con una giovane amante (Andersson) che a un certo punto lo tradisce con un perfido attore di teatro. Bergman descrive da grande artista il rapporto logoro tra i due amanti, vissuto tra consuetudini e frasi fatte, gelosie e tradimenti, parole non dette e sogni di fuga. Il finale è molto triste, con Albert deriso e malmenato, dopo aver cercato di vendicarsi del rivale, non riesce neppure a suicidarsi e finisce per uccidere l’orso del circo. Tragedia ridicola, se si vuole, perché tutto torna al punto di partenza: il circo riprende il suo girovagare, Albert torna con la sua amante e la vita prosegue tra delusioni, rimpianti e inutili sogni di cambiamento. In fondo, nel breve volgere di una notte, l’uomo e la donna si sono traditi reciprocamene, perché il primo sarebbe tornato a vivere con la moglie, se soltanto lei lo avesse accettato. L’amante, invece, si è lasciata sedurre da uno squallido teatrante che l’ha ricompensata con un gioiello falso ed è andato al circo per deriderla. Bene ha fatto la critica francese a definire il film un’opera nera che mette in scena un’umanità dolente, incapace di cambiare la propria vita, una storia d’amore non convenzionale, dal contenuto introspettivo che anticipa i futuri capolavori. Un film ricco di immagini cruente, fotografia gelida in bianco e nero, soluzioni di regia originali (figure riprese negli specchi, in controluce), poetici piani sequenza e panoramiche di scogliere, prati e montagne che si specchiano nel mare. Romanticismo espressionista che non presta il fianco a sentimentalismi di sorta e a immagini consolatorie, ma sempre crudo e realistico, persino cinico e sadico. Attori straordinari, impostati secondo le regole del teatro, così come il cinema di Bergman resta sempre molto teatrale, anche se la fotografia di Sven Nykvist conferisce un respiro ampio e grande intensità agli esterni.
Bergman afferma nel libro autobiografico Immagini (Garzanti, 1992): “Il film è un tumulto, ma un tumulto ben organizzato. Lo scrissi in un piccolo hotel nei pressi di piazza Mosebacke, la camera era stretta, con una vista di chilometri sulla città e sulla rada. Dall’hotel si scendeva al teatro attraverso una scala a chiocciola segreta. La sera si udiva la musica che veniva dal palcoscenico della rivista. Di notte, nella sala da pranzo dell’hotel, gli attori e i loro bizzarri ospiti facevano festa. In quell’ambiente, in meno di tre settimane, nacque Una vampata d’amore, scritto di getto, dal principio alla fine, guidato dai demoni della gelosia. Qualche anno prima ero stato sconsideratamente innamorato. Con il pretesto dell’interesse professionale spinsi la mia amata a raccontarmi nei dettagli le sue sfaccettate esperienze erotiche. La specifica eccitazione della gelosia retrospettiva mi logorò, graffiandomi nelle viscere e nel sesso”.
Possiamo dire che il film è una combinazione continua di erotismo e di umiliazioni, che parte dall’episodio di Frost e Alma - narrato in un breve flashback - per poi approfondire il sentimento sviscerando la stanca relazione tra Albert e Anne. Una vampata d’amore non fu accolto bene dalla critica, addirittura un critico svedese scrisse di rifiutarsi di valutare ocularmente l’opera del signor Bergman. Il tempo ha dato ragione al grande regista, perché il film è invecchiato benissimo e resiste con la forza del capolavoro al passare del tempo.

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La RAI mi intervista su IL CIELO SOPRA PIOMBINO


Donne di marmo per uomini di latta (2016)

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di Roger A. Fratter



Regia: Roger A. Fratter. Soggetto e Sceneggiatura: Roger A. Fratter. Fotografia: Lorenzo Rogan. Operatori: Lorenzo Rogan, Stefano Ravanelli. Fotografo di Scena: Marco Paciolla. Scenografia: Celso Albavilla. Trucco: Lahila Laveaux. Montaggio: Roger A. Fratter. Direttore di Produzione: Alban Herizei. Musiche Originali: Massimo Numa, Luciano D’Addetta. Distribuzione Home Video: Foglio Cinema. Durata: 89’. Genere: Drammatico, Erotico, Psicologico. Titolo Internazionale: Marble Women for tin men. Interpreti: Liana Volpi (Roberta), Valentina Di Simone (Simona), Magda Lys (Francesca), Gloria Gordini (Clara), Roger A. Fratter (Giorgio), Anna Palco (Diana), Mery Rubes (proprietaria del night), Beata Walewska (Cinzia), Debby Love (Lucia), Gisy Bergamo (cliente edicola), Giusepe Cardella (Trussani), Massimiliano Aresi (Alessandro), William Carrera (Carlo), Giuliano Melis (scultore), Mark Provera, Max Bezzati, Maurizio Quarta, Fulvio Piavani, Beatrice Chieu, La Dany.


Roger A. Fratter continua a indagare l’universo femminile, dopo Rapporto di un regista su alcune giovani attrici e Tutte le donne di un uomo da nulla, mettendo in primo piano l’erotismo e il contrasto di personalità tra uomo e donna, con la seconda inesorabilmente vincente grazie alle armi della seduzione e del sesso. Donne di marmo per uomini di latta si propone di dimostrare che l’uomo è una cosa insignificante mentre la donna conduce sempre il gioco, è l’elemento determinante del rapporto, tratta l’uomo come meglio crede, non è mai succube ma dominatrice.



In breve la trama. Roberta dirige la rivista Sculturopoli, fondata insieme a Giorgio e all’imprenditore Trussani, è una donna frustrata che tratta male i suoi collaboratori e pretende una servile dipendenza. Vive una sorta d’amore malato con Giorgio, pur essendo la donna di Trussani, odia la collaboratrice Simona - giovane amante di Giorgio - e fa di tutto per licenziarla. A sua volta Giorgio soffre per una situazione familiare difficile, separato dalla moglie, con una figlia adottiva (Francesca) che odia la madre e tormenta il padre, tra sogni incestuosi e sfide provocanti. Non anticipiamo altro a livello di trama per non rivelare colpi di scena e situazioni che portano a un precipitare degli eventi, ma soffermiamoci sulle valenze psicologiche della pellicola. Fratter analizza con maggior profondità del solito il rapporto padre - figlia, portandolo su un terreno pericoloso, spingendo la macchina da presa a perlustrare tentativi di rapporti erotici semi incestuosi. Non solo. La donna è sempre in primo piano, che sia donna - padrona o (più raramente) donna- remissiva, persino donna - angelo vendicatore in un violento finale. L’uomo non ne esce bene, dimostra di non capire l’universo femminile, di restare in superficie, perché i ragionamenti profondi, introspettivi, si registrano soltanto nelle sequenze che vedono una donna davanti alla macchina da presa. Attrici bellissime, come sempre nei film di Fratter, bene le tre interpreti, con una perfida Liana Volpi  calata nel ruolo della  protagonista, mentre Magda Lys è una figlia perfetta, bambola bionda con gli occhi azzurri e i pensieri profondi, per finire con Valentina Di Simone, spogliarellista torbida e sensuale. Liana Volpi è straordinaria in una sequenza altamente drammatica dove subisce una violenza carnale ed è bravissima nei panni di una manager vogliosa e insaziabile, gelosa e cinica, donna in carriera sensuale e sprezzante che manovra i sottoposti come burattini. Roger A. Fratter fa di tutto, in puro stile Joe D’Amato, dalla regia al montaggio, passando per soggetto e sceneggiatura, interpretando persino il ruolo maschile principale. Ottime le musiche di Numa e D’Addetta, impostate su sonorità rap e momenti melodici, buona la coloratissima fotografia digitale di Rogan, montaggio compassato come richiede il tipo di pellicola. Voce fuori campo onnipresente, ma non fastidiosa visto che rappresenta i pensieri delle donne protagoniste, soprattutto della figlia che vive desideri onirici e passioni perverse, trascurata da un padre che vorrebbe tutto per sé. Buona l’ambientazione tra il Lago di Garda e Bergamo con l’idea originale di un incipit psichedelico in sottofondo verde acqua tra piccole gocce che rigano un vetro. Film teatrale e profondo con molti nudi integrali femminili, esibiti con malizia e torbida provocazione, in giochi di seduzione erotica molti intensi. Analisi cinica e impietosa di un rapporto uomo - donna impostato su basi non paritarie, spesso finalizzato al solo rapporto sessuale. La donna è una dama di ferro, simbolo della rivista Sculturopoli ma soprattutto metafora delle idee che pervadono la sceneggiatura. L’uomo è un oggetto inutile, un pezzo di latta, privo di personalità, soggiogato dal seducente potere femminile. Donne di marmo per uomini di latta è un ulteriore tassello nella ricerca narrativa di Fratter, un regista che è passato dal cinema di genere, dagli horror cupi e spettrali degli esordi, a una filmografia di stampo introspettivo e psicologico. Consigliato per un pubblico adulto. Lo trovate in libreria, distribuito da Foglio Cinema, circuito Libroco. Ma anche su IBS e Amazon. Da vedere.

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Prima sotto le stelle per IL CIELO SOPRA PIOMBINO

Storia della Commedia Sexy

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Gordiano Lupi - Storia della commedia sexy aall'italiana
Pagine 230 - Euro 16 - SENSOINVERSO EDIZIONI (Ravenna)
La commedia erotica, detta anche commedia sexy o commedia scollacciata, deriva dalla commedia all’italiana e presenta una commistione di diversi generi cine-letterari. La commedia sexy comincia a far parlare di sé a partire dagli inizi degli anni Settanta, un periodo poco florido per il cinema italiano, che vive all’ombra dei grandi successi statunitensi. I prodotti italiani nascono come puro cinema di imitazione sulla scia dei lavori d’oltreoceano, nella speranza di bissarne i grandi incassi al botteghino. Questo assunto presenta le dovute eccezioni. Pensiamo a un genere come lo spaghetti western che, pur attingendo dal cinema statunitense, da Sergio Leone in poi presenta una ben precisa originalità. Per l’horror vale lo stesso discorso, perché registi come Lucio Fulci, Dario Argento e Joe D’Amato rappresentano una via italiana alla cinematografia del brivido. La commedia sexy, però, è un genere italiano al cento per cento ed è una diretta filiazione della commedia classica, forse è il solo genere a non risentire di alcuna suggestione esterofila. Nella commedia erotica tutto deriva dalla nostra cultura: luoghi, circostanze, situazioni, erotismo morboso e malizioso. I registi che praticano il genere si limitano a trasporre sul grande schermo l’immaginario erotico dell’italiano medio e strizzano l’occhio alle fantasie degli adolescenti. Per questo vediamo sfilare sul grande schermo una serie di bellezze che prendono le sembianze di vigilesse, poliziotte, insegnanti, studentesse, dottoresse, infermiere, maestre di scuola e chi più ne ha più ne metta. Le interpreti della commedia erotica sono attrici belle e maliziose, ma dotate di una sensualità naturale, lontana anni luce dalla bellezza artificiale di certe attrici contemporanee. Queste attrici vestono i panni delle donne che ogni giorno frequentano la vita dell’italiano medio ed è così che il sogno erotico sembra a portata di mano. I registi giocano su questo fatto e accanto alla bellezza di turno utilizzano attori comici bravi ma non belli, come Lino Banfi e Alvaro Vitali, e li mettono al centro di situazioni erotiche piccanti. I sogni del maschio italiano si fanno realtà, anche se sono sempre le donne a condurre il gioco e a far capitolare gli uomini. Le commedie sexy hanno una trama semplice e spesso prevedibile, anche se i film davvero riusciti non sono uguali uno all’altro. I comici bravi improvvisano e caratterizzano certe pellicole, così come i registi più dotati imprimono un marchio d’autore riconoscibile. La commedia sexy, come tanto cinema italiano originale di quel periodo storico, non è cinema di serie B e certa critica importante ha la responsabilità di averne affrettato la scomparsa. Adesso possiamo pure rivalutare la commedia erotica, ma resta il fatto che il nostro cinema ha lasciato morire il suo unico genere originale. La commedia sexy, fin dal suo apparire, riscuote un grande successo di pubblico e nessuna attenzione da parte della critica, che stronca per principio ogni pellicola. In questi film si raccontano spaccati di provincia, gelosie, amori, tradimenti, invidie, sempre con il sorriso sulle labbra, ricorrendo spesso a una comicità di grana grossa. Immancabili le bellezze discinte, le docce, gli sguardi furtivi dal buco della serratura, i reggicalze, le gonne che si alzano improvvise, una scala provvidenziale sotto la quale spiare i segreti del sesso e via dicendo. Possiamo dire, con Gian Luca Castoldi, che è da Signore e signori (1965) di Pietro Germi che la commedia all’italiana comincia a virare verso un erotismo più accentuato. Il primo esempio di commedia sexy, secondo Bruschini e Tentori, è Vedove inconsolabili in cerca didistrazioni(1969) di Bruno Gaburro, mentre per altri resta Mazzabubù… quante corna stanno quaggiù (1970) di Mariano Laurenti. A ben guardare, però, sono due pellicole che possono sempre essere ricondotte nel quadro più ampio della commedia all’italiana. Non è facile indicare con precisione una pellicola che ha cominciato a introdurre varianti sexy nella commedia all’italiana, perché anche nello schema classico un velato erotismo c’è sempre stato. Il modello fondamentale resta Malizia (1973) di Salvatore Samperi, una pellicola di livello superiore alla media che detta gli stilemi imprescindibili del genere. La commedia sexy comincia a farsi spazio nei gusti degli spettatori italiani ormai stanchi del decamerotico. Malizia (1973) di Salvatore Samperi è il film che apre le porte al genere ed è il capostipite di tutte quelle commedie scollacciate che hanno la famiglia come campo d’azione delle situazioni perverse. Chi non ricorda la sexy cameriera Laura Antonelli mentre seduce il giovanissimo Alessandro Momo? Il reggicalze, la scala sotto la quale spiare le gambe, la doccia nuda e il buco della serratura, tutte le malizie del genere cominciano proprio da Malizia. La stessa Laura Antonelli interpreterà altri film sulla stessa falsariga ma non riuscirà mai a bissare il successo dell’originale. Cose come Peccato veniale (1974), Scandalo (1976), Nenè (1977), Casta e pura(1981) e infine il pessimo Malizia 2000(1991) sono decisamente inferiori. La commedia sexy riunisce due elementi fondamentali: un po’ di sesso non troppo spinto e una comicità di bassa lega, quasi sempre piuttosto volgare. Tra le prime commedie sexy possiamo citare Non commettere atti impuri (1971) di Giulio Petroni con Barbara Bouchet. La commedia sexy si divide in sottogeneri: famigliare, professioni, scolastico e militare, secondo l’ambiente dove viene inserita l’azione comico - erotica. Questi film vengono quasi sempre girati in provincia e riproducono la vita dell’Italia lontana dai grandi centri, spesso è la Puglia che la fa da padrona, forse perché in quel periodo sta cercando un lancio turistico. Sono film che piacciono molto in provincia dove il pubblico frequenta le sale anche solo per guardare le bellezze provocanti delle protagoniste. Logico che ambientare in provincia l’azione filmica comporta una maggior identificazione nei sogni erotici dello spettatore. Le donne sono importanti nella commedia sexy e il buon andamento del film dipende dalla scelta dell’attrice: Edwige Fenech e Gloria Guida vogliono dire successo sicuro presso un certo tipo di pubblico. La prima è indicata per rivestire ruoli da insegnante, poliziotta e dottoressa, mentre la seconda è perfetta come ragazzina maliziosa, studentessa e torbida amante di vecchi sporcaccioni. Altre sexy star da non dimenticare sono Barbara Bouchet, Carmen Villani, Nadia Cassini, Laura Antonelli, ma l’elenco sarebbe interminabile. La commedia sexy non è tale senza le solite scene di doccia, le spiate dal buco della serratura, le trovate da pochade, le volgarità gratuite, le flatulenze, i rumori corporali, le battutacce grevi e volgari. Tutto come da copione. Tra i registi che hanno praticato la commedia sexy citiamo Sergio Martino, Nando Cicero, Mariano Laurenti, Marino Girolami, Michele Massimo Tarantini, Marino Girolami, Gianfranco Baldanello, Mauro Ivaldi, Giuliano Carnimeo, Tiziano Longo, Nello Rossati, Bruno Corbucci e Sergio Corbucci. Non dimentichiamo che si sono cimentati nel genere anche registi come Lucio Fulci, Luigi Cozzi, Joe D’Amato, Umberto Lenzi, Mino Guerrini, Massimo Dallamano e molti altri.





(Foto di libro con Dargys)

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

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La comicità di Gigi e Andrea

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Acapulco, prima spiaggia… a sinistra (1983)
di Sergio Martino
La parte peggiore della commedia sexy è datata primi anni Ottanta, quando il genere si estingue per carenza di idee, dibattendosi per alcuni anni prima di spegnersi definitivamente. Il canto del cigno della commedia erotica è rappresentato da alcune pellicole con Gigi e Andrea, due comici reduci da un effimero successo televisivo che non reggono la prova del grande schermo. Acapulco, prima spiaggia… a sinistra (1983) è un esempio eclatante. Scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Massimo Franciosa. Fotografia di Giuseppe Pinori, musiche di Detto Mariano, montaggio di Eugenio Alabiso, scenografie di Sergio Canevari. Producono Luigi Borghese e Manuel Laghi, per Cinematografica Alex. Distribuisce Variety. Interpreti: Gigi Sammarchi, Andrea Roncato, Gegia (Francesca Antonaci), Simona Marchini, Mirella Banti, Jimmy il Fenomeno, Jacques Stany, Anna Kanakis e Serena Grandi.




Acapulco esiste solo nel titolo come luogo vagheggiato dai due amici bolognesi (Gigi e Andrea) che finiscono per trascorrere le vacanze a Cesenatico, in una squallida pensione, a caccia di donne da rimorchiare. Una pessima pellicola che definirei commedia bolognese di grana grossa, se mi passate un termine coniato per l’occasione. Gigi e Andrea ci provano un po’ con tutte per un’ora e quarantacinque di pellicola (troppo lunga per quel che ha da dire), rimediando brutte figure e sonori ceffoni. Alla fine tornano in città delusi proprio nel giorno di ferragosto, dove si consolano con due bellezze locali. Si ricordano solo espressioni in bolognese che fanno rimpiangere non poco la vecchia comicità stile Banfi - Montagnani.




Le battute sono il massimo della volgarità, si passa da “un gran bel giro di culi”, per arrivare alla protesi nello slip modello IncredibileHulk di Andrea, finendo con la bella mortadellona da dare in pasto alla ragazza di turno. Andrea mette in scena una stanca verve comico - erotica a suon di “me la dai o no?”, “mica male il culetto di Miranda”, “a me mi diventa duro… sì, ma non è cattivo!”, “che modi da tramviere!” (rivolto al babbo che guida i tram), “quei bei minervoni nostrani con lo zolfone rosso”, “ti tocco? L’aria è di tutti…”, “la vogliamo keniota, ma meglio kegnocca…”. Gigi cerca di fare l’intellettuale ma non è una grande spalla, i tempi comici dei due attori sono televisivi, al punto che il film pare una sit-comedyvenuta male. Le donne ammiccanti della vera commedia sexy non ci sono più, qui fanno la parte del leone bellezze prosperose tipo Mirella Banti e Serena Grandi. Sono il massimo del volgare i dialoghi tra Andrea e la bella tabaccaia Mirella Banti con lui a chiedere zolfanelli con la capocchia rossa, citando malamente Fellini.




Da ricordare in negativo anche il discorso sulla protesi al cervello con Andrea che non comprende a cosa possa servire, ché lui quando va a letto con una donna mica le deve dare cervellino fritto! Tra tanta tristezza merita un cenno la canzoncina trashche fa da leitmotiv alla pellicola: Viva le donne che son come l’acqua santa/ quando le tocchi il miracolo non manca/ Miranda dice che l’hai messa pure incinta/ che ci do che ci do che ci do... Il film è recitato male, i due protagonisti non sono all’altezza e non ce la fanno a reggere una trama inesistente infarcita di pessimi dialoghi. Le battute sono vecchie, penose, risapute, non divertono ma fanno innervosire. Tra i comprimari citerei Gegia, miss culetto d’oro, che consola Andrea al rientro da Cesenatico e tutto sommato non interpreta male la meridionale trapiantata a Bologna. Mirella Banti deve solo far vedere un po’ di mercanzia, così Serena Grandi, che dice due battute sul lungomare di Cesenatico. Interessante come viene presentata la Grandi nel ruolo di sexy maschera di un cinema hard gestito dalla madre di Andrea, assunta per combattere la crisi del porno. Serena Grandi veste in pizzo nero, reggicalze, calze a rete e riceve con sorrisi maliziosi alcuni clienti, tra i quali notiamo un gay che sfoggia l’abbonamento.






Il film manca di una vera trama: scorrono sullo schermo una serie di scenette unite dall’esile collante delle ferie a Cesenatico. Simona Marchini è poco utilizzata, interpreta una donna vestita di bianco che appare e scompare sulla strada di Andrea. Le avventure di Gigi e Andrea si trascinano tra intermezzi penosi con una baby-sitter fornita da una ditta seria (ma io non ho mica riso!) che loro si vorrebbero portare a letto, battute stantie come il cannone è vecchio ma spara ancora bene e cazzotti ricevuti da mariti gelosi. Anna Kanakis interpreta una bella ragazza che si fa abbordare da Andrea perché lo crede un riccone in compagnia del cameriere. I due amici finiscono a cena con la ragazza e un’amica, ma fanno la figura dei pidocchiosi (quali sono) perché le portano in un ristorante per camionisti gestito da un esilarante Jimmy il Fenomeno. Pure qui da segnalare una battuta davvero scadente ai danni del tremolante Jimmy: Questo chi è, San Vito? Balla…




Prima di tornare a casa i due amici finiscono con una coppia di ricchi sporcaccioni che pagano per una notte a base di amore di gruppo, ma al mattino non ricordano niente e li cacciano di casa. A Bologna i nostri eroi ritrovano Gegia, miss culetto d’oro, e si consolano con un bel pranzo meridionale in una mansarda del centro. Acapulco è una vera stronzata, conclude Andrea. Per finire in bellezza i due amici vorrebbero convincere Gegia a fare la puttana, ma lei dice che va con gli uomini solo per amore. Le ultime sequenze vedono arrivare un’amica sarda piuttosto bruttina - ma dotata di un gran seno - che va a letto con Gigi per santificare in piena regola il ferragosto. Un film da dimenticare. Non sembra un lavoro di Sergio Martino. Per la volgarità di certe situazioni ricorda il cinema di Gianfranco Baldanello.   

Pasta e cinema recensito

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